sabato 3 gennaio 2015

Il neocolonialismo che distrugge il Madagascar

 

(seconda parte)

Il Madagascar è un’isola. Certo, è la quarta del mondo per superficie (585 mila chilometri quadrati), ma è pur sempre un’isola. Sebbene tutte le isole abbiano una loro biosfera unica, il Madagascar (che si è separato dall’Africa circa 165 milioni di anni fa) è un caso a sé: circa il 90 per cento della flora e della fauna sono endemiche, e non si trovano in nessun altro luogo del pianeta. Lo spettacolo extraterrestre di enormi baobab con i tronchi a forma di carota, di spettrali lemuri, e di intere “foreste” di alti pinnacoli di pietra può far sgranare gli occhi anche al più navigato dei viaggiatori. Ma questa bellezza unica e indimenticabile va a braccetto con la disperazione quotidiana della popolazione. I malgasci, principale gruppo etnico dell’isola, hanno un modo di dire a dir poco eloquente:  “meglio morire domani che morire oggi”. Il malgascio medio vive con circa un dollaro al giorno.


E dato che la popolazione del Madagascar, più di 20 milioni di abitanti, cresce del tre per cento ogni anno - uno dei tassi di crescita più alti di tutta l’Africa - il contrasto tra la ricchezza della terra e la povertà dei suoi abitanti aumenta di giorno in giorno. Per questo motivo gli ambientalisti, allarmati, hanno definito il Madagascar un punto caldo della biodiversità, esprimendo la loro disapprovazione in particolare per la pratica agricola del “taglia e brucia”, molto diffusa sull’isola, che consiste nel dare fuoco ad ampi tratti di foresta per convertirli in risaie.

Nel 2002 la comunità ambientalista internazionale aveva accolto con entusiasmo l’elezione  del presidente Marc Ravalomanana, con il suo programma sensibile all’ambiente. Allo stesso modo ha reagito con sconforto quando, nella primavera del 2009, un golpe militare lo ha destituito, insediando al suo posto un ex disc jockey radiofonico troppo giovane, secondo la costituzione, per ricoprire la carica di presidente. Nel settembre del 2009, dopo diversi mesi in cui ogni giorno veniva tagliato illegalmente legno di rosa per un valore di oltre 360 mila euro, il nuovo governo, a corto di denaro, ha revocato il divieto di esportazione del legno, in vigore dal 2000, e ha emanato un decreto per legalizzare la vendita dei tronchi già abbattuti e stoccati nei depositi. Lo scorso aprile, messo sotto pressione dalla comunità internazionale, il governo ha rimesso in vigore il bando. Ma il taglio continua.

In realtà il resto del mondo non è nella posizione di poter giudicare, data la sua voracità - a volte benefica, altre meno - nei confronti delle straordinarie risorse del Madagascar. Il saccheggio delle foreste dimostra con quanta facilità si possa spezzare il fragile equilibrio tra le esigenze umane e quelle della natura, equilibrio che in Madagascar è sempre stato precario. I diritti di prospezione ed estrazione mineraria delle riserve d’oro, nichel, cobalto, ilmenite e zaffiri (vedi foto) sono per lo più in mano a holding straniere. 

La Exxon Mobil ha dato inizio nel 2006 alle ricerche per il petrolio nelle acque al largo dell’isola, e per anni i migliori costruttori di chitarre americani hanno dotato i loro strumenti di tastiere realizzate in pregiato ebano del Madagascar. In tempi recenti il governo federale dell’isola ha tentato di affittare terreni arabili alla Corea del Sud e di vendere acqua all’Arabia Saudita. Una politica che porta allo sfruttamento di una grande quantità di risorse con ben pochi benefici per il malgascio medio. Non c’è da stupirsi quindi se i minatori locali depredano la terra di pietre preziose da smerciare sui mercati asiatici. O che animali come il geco dalla coda a foglia o la testuggine dal vomere, in via d’estinzione, vengano esportati clandestinamente da piccoli commercianti di animali che li vendono ai collezionisti. O che i giovani smagriti di Antalaha finiscano per decidere che è meglio morire domani, e intascare oggi i soldi dei cinesi che comprano il legno di rosa.

«È un bene per l’economia, un male per l’ecologia», commenta un uomo coinvolto nel commercio illecito di legname. Ma ad Antalaha il piccolo boom economico si è rivelato una bolla di sapone. Anche volendo lasciare da parte le devastanti conseguenze a lungo termine della spoliazione della foresta (la scomparsa del prezioso legno su almeno 10 mila dei 4,5 milioni di ettari di area protetta del paese, l’estinzione dei lemuri e di altre specie endemiche, la piaga dell’erosione del suolo che fa insabbiare i fiumi e fa morire i terreni agricoli confinanti, la perdita delle entrate derivanti dal turismo) i perversi effetti secondari del saccheggio del legno di rosa si sentono già da ora. Gli abitanti di Antalaha, che all’improvviso si sono trovati a dover schivare motociclette, hanno anche cominciato a notare l’aumento dei prezzi di pesce, riso e altri generi d’uso quotidiano. La ragione è semplice: ci sono meno uomini sia in mare, sia nei campi. «Sono nella foresta», afferma Michel Lomone, l’esportatore di vaniglia. «Sono tutti nella foresta».

[Fine seconda parte. Prima parte QUI - Terza parte QUI]

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