sabato 2 agosto 2014

Abakao soldi



Come la prima parola che i bambini malgasci imparano non è “mamma”, ma vazaha, così la prima parola malgascia che ho imparato io è stata abakao, dammi. Me la sono sentita rivolgere da Tina migliaia di volte, ormai, sia che si trattasse di fare la spesa, com’è ovvio, sia che i soldi le servissero per altri usi. Se ora che siamo sposati Tina dovesse rivolgersi ai genitori adottivi per un aiuto economico, le direbbero: “Hai un marito, fatti mantenere da lui!”. Ma prima del giro di boa del febbraio 2011, in cui ci siamo sposati, quando Tina si rivolgeva loro per un aiuto economico, le dicevano: “Stai frequentando un vazaha, vedi di farti mantenere da lui”. Forse, l’unico periodo della sua vita in cui non aveva problemi di soldi ed era relativamente felice, fu prima di conoscermi. Poi, è cominciata la scalata ai beni materiali, o sarebbe meglio dire la discesa agli inferi, di cui non si vede ancora il fondo. Tuttavia, nonostante nei periodi in cui sono in Italia io non le mandi soldi, perché così mi sono imposto di fare, Tina non è del tutto abbandonata a se stessa. Anzi, ho notato che nel terreno di proprietà di madame Nohay, qui in foto, la casetta dove abbiamo abitato in affitto nel 2008 è stata demolita e al suo posto sono sorte ben quattro abitazioni: quella concessa a Tina per suo uso personale, quella in cui vive il fratellastro Zainoly e, adiacente, quella data in affitto, tutte in muratura, più un’altra in lamiera, anch’essa da dare in affitto. Si chiama business e madame Nohay, evidentemente ci sa fare.


Dopo qualche giorno che ci eravamo trasferiti nella casa di Tina, stavolta senza che venissi obbligato a pagare l’affitto come nel 2008, madame Nohay ha mandato due uomini a rifare il recinto. Sono stati tolti i fusti contorti dell'albero di katrafay che vengono abitualmente usati a questo scopo e sostituiti in parte con barili di petrolio tagliati su un lato, aperti e appiattiti, e in parte da lamiere ondulate comprate appositamente in ferramenta. Si tratta di un salto di qualità, di un avanzamento nella scala sociale. Perché ha aspettato che io e Tina venissimo ad abitare qui per fare questi cambiamenti? Si tratta di una manifestazione di ospitalità da parte della vecchia signora o c’è dietro un tranello? Con i malgasci non si può mai essere sicuri di niente. Potrebbe farsi avanti e chiedermi di pagare le spese. Per ora mi limito a fornire il pranzo ai due operai, i quali non evitano di colpire le lamiere inchiodandole a robusti pali anche in quelle ore canoniche che sarebbero destinate al riposo pomeridiano. Dalle nostre parti non gli permetterebbero di fare tutto quel baccano all’una di pomeriggio e chiamerebbero subito i carabinieri. Ma qui si può.

Che ci sia poco da stare tranquilli con madame Nohay, con cui Tina litiga un anno sì e un anno no, lo deduco dal fatto che siccome gli inquilini che abitavano nella casa di lamiera se ne sono andati senza pagare le bollette Jirama, l’azienda idroelettrica di Stato, Tina ha chiesto a me di pagarle. Le ho risposto che ero qui da tre giorni e mi stava chiedendo di pagare le bollette di affittuari morosi, cosa che in nessuna parte del mondo sarebbe stata accettata come corretta. Oltretutto, madame Nohay sa dove i vecchi inquilini si sono trasferiti ma, pro bono pacis, non ha intenzione di andare a reclamare il denaro che le spetta. Visto che Tina insisteva, dicendo che se non pagavamo Jirama avrebbe tagliato la fornitura di acqua e luce, le ho proposto un patto da mettere per iscritto: io avrei pagato queste bollette non mie, ma non quelle dell’energia da me consumata. Cioè fra due mesi me ne sarei andato senza pagare perché avevo già dato, come si suol dire. La faccenda è rimasta in sospeso. Madame Nohay non è venuta a chiedere soldi. Tina sa che questo è un terreno minato, foriero di litigi, ma le bollette sono sul tavolino del soggiorno, in bella vista. Vedremo come andrà a finire.

Nel frattempo, a parte il continuo stillicidio di denaro che esce dalle mie tasche, per qualche ragione accettabile o arbitrariamente, mi capitano anche incontri ravvicinati di tipo zoologico. La vicina che alleva pollame, e a cui hanno rubato 14 anatre, ha anche due tartarughe. Poiché durante il lavoro della sostituzione del recinto Tina va a parlare con lei e suo marito, facendo quello che in Madagascar si chiama miresake, chiacchierare, quasi uno sport nazionale, mi è capitato di sentire l’uomo ridere rumorosamente quando mi ha visto con una pentola in mano, in cortile. Stavo in effetti lavando i piatti, aggiungendo continuamente acqua all’otre da campeggio di plastica che avevo portato ancora nel 2008 e che Tina per fortuna non ha buttato via. La sua poca capienza mi costringe ad uscire spesso in cortile per rifornirmi di acqua dalle taniche ed è stato così che l’uomo, di professione poliziotto, mi ha visto e si è messo a ridere. Se qualcuno ride di noi si prova una sensazione sgradevole, specie se non si capisce la lingua e non si conosce il contesto in cui la risata si è manifestata. Io sono sospettoso per natura e poi i poliziotti non mi piacciono per niente.

Fregatene! Mi dice una voce interiore. I malgasci non capiscono che dare da mangiare ai cani randagi è opera meritoria e non da minorati mentali. E non capiscono che un uomo che aiuta sua moglie (mentre questa sta a chiacchierare con i vicini) è il prodotto del Femminismo e della parità dei sessi. Anch’egli fa un’azione meritoria. Anche perché, se la moglie lavora, qualcuno li deve pur lavare i piatti. Insomma, in Madagascar, noi stranieri oltre ad essere fauna esotica, e quindi continuamente sotto lo sguardo di bambini e ragazzi, siamo sempre sul punto d’esser presi per deficienti.

2 commenti:

  1. ti leggo spesso, a volte rido a volte inorridisco, mi continuo però a chiedere come tu faccia, caro amico degli animali a vivere lì

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    1. Domanda da un milione di euro!


      Forse perseguo il suggerimento: "Gnosce te ipsum", conosci te stesso.


      E qui, vedendo la mia impotenza nell'impedire il male ai danni degli animali scopro quanto sono codardo.

      Accorgendomi che mi tremano le gambe quando un poliziotto mi ferma per strada e mi chiede i documenti e mi fa sentire in colpa perché secondo lui non sono in regola, scopro quanto sono pavido.

      Alla fine del viaggio, ritornato in Italia, avrò aggiunto un tassello in più alla conoscenza di me stesso.
      Ti sembra poco?

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