Quando Tina me lo indicò, mentre, con un gomito appoggiato al bancone del bar
sorseggiava un Pastis parlando con un altro francese, a me sembrò molto più
vecchio dei suoi 58 anni. Tina abbassò la voce dicendomi che si chiamava Benno
e nella vita aveva fatto il mercenario, vuoi perché si rendeva conto di parlare
di una persona a pochi metri da noi, e che avrebbe potuto capire e non gradire
di essere oggetto delle nostre attenzioni, vuoi perché i vazaha che uccidono per mestiere suscitano un certo
rispetto nei malgasci, che di solito uccidono quando sono ubriachi e per motivi
venali. Fatto sta che anche per me la figura del mercenario, di quelli alla
“Beau Geste", per intenderci, richiama alla mente la Legione Straniera e,
necessariamente, una vita avventurosa e spericolata. Benno, a cui mi piace
attribuire il nome di Jacques, non so perché, non è morto colpito da pallottola
o da un colpo di macete, ma annegato nel mare di Anakao il 26 luglio 2011.
Ovvero due anni dopo che l’avevo visto io nel bar del Sud Sud.
Se vogliamo un esempio di come nascono le leggende, considerato che il
mercenario Benno, classe 1951, magari non aveva mai ucciso nessuno in vita sua
e aveva fatto solo lavoro d’ufficio, bisogna che io racconti le due versioni
che circolano sulla sua morte. La prima, che nasce dai pettegolezzi che in
Madagascar si chiamano Radio Babaky
e di cui i residenti stranieri non sono esenti, mi descrive un Benno che sapeva
nuotare benissimo, ma che non ha potuto fronteggiare i sei malgasci che erano
caduti in acqua con lui, in seguito al ribaltamento del motoscafo veloce dovuto
al vento forte, e che gli si erano aggrappati non sapendo nuotare nella
speranza che il vazaha li
salvasse da morte certa. E questa versione ci mostra l’eroe occidentale a cui i
neri si rivolgono nel momento del bisogno, come avviene con il dottore bianco
nella giungla, a cui si portano i feriti e i malati.
L’altra versione è molto più prosaica e ha dell’incredibile nel modo in cui io
sono venuto a conoscerla. Stavo infatti facendo colazione nel villaggio, con
the e boko boko, quando entra nel
chiosco un malgascio che si siede a chiacchierare con il padrone della
struttura. Poiché Tina, come tutti i malgasci, attacca discorso anche con gli
sconosciuti, pone all’uomo appena entrato qualche domanda sul modo di ritornare
a Tulear via mare. Ebbene, salta fuori che l’uomo si chiama Fulgence, è di
etnia Vezo, abita ad Anakao ed è l’unico sopravvissuto del naufragio del
motoscafo veloce, detto Vedette, in cui persero la vita 13 persone tra cui
Benno.
Quando
Tina mi ha riferito ciò, ho subito pensato alla legge di Attrazione e per
l’ennesima volta ho dovuto constatare che nel momento in cui ho bisogno di
qualcosa, quel qualcosa mi si appalesa. Sono anni che mi capita questo e sempre
mi stupisco. Chi devo ringraziare per questi privilegi? L’universo? Zanahary?
Lasciamo la questione in sospeso, perché penso che rimarrà sempre irrisolta e
proseguiamo con la versione fornita dal sopravvissuto.
Fulgence
Tovondrany ha recisamente negato che sei malgasci si siano aggrappati a Benno,
trascinandolo a fondo, per il semplice motivo che Jacques Benno era ubriaco
quando è salito sulla Vedette e lo era ancora quando la Vedette si è ribaltata.
Un uomo ubriaco in mare, che sappia o meno nuotare, semplicemente non ha la
coordinazione motoria per nuotare con onde alte. Che di 14 passeggeri siano
morti tutti tranne il nostro Fulgenzio è una prova che il mare non scherza,
quando è arrabbiato. La versione edulcorata probabilmente è nata tra i vazaha francesi residenti, ma io, per rispetto alla verità,
devo piegarmi alla testimonianza dell’unico sopravvissuto, il signor Tovondrany
Fulgence, che venerdì 22 agosto è venuto a far colazione nello stesso chiosco
in cui mi trovavo io, proprio il giorno in cui avevo deciso di raccontare la
storia di Benno. Storia che ha un risvolto amaro. In realtà Benno era riuscito
a nuotare fino a riva, nonostante la sbornia ma, arrivato sulla battigia senza
più forze, non è stato soccorso dai malgasci, che si sono limitati a tastarlo
per vedere se aveva denaro addosso. Qualche metro più in là, Fulgente
Tovondrany ricevette le cure del caso, fu portato in una capanna, gli furono
cambiati gli abiti bagnati e gli fu frizionato il petto fino a farlo rinvenire.
Se avessero fatto la stessa cosa con Benno, sarebbe ancora vivo, ma Benno era
un vazaha e il razzismo dei neri
verso i bianchi ha deciso della sua vita. Benno morì sulla battigia, senza
soccorsi.
Come
corollario, c’è da dire che tre settimane fa è successo ancora. Con le stesse
modalità: un motoscafo veloce, il vento forte improvviso, la Vedette che si
ribalta e 10 persone che annegano in mare, compreso un vazaha francese, sua moglie malgascia e il loro guardiano.
E’ successo al largo di Antsiranana.
Ma
c’è un’altra storia che voglio qui raccontare e che ci mostra un Madagascar in
cui la vita e la morte giocano continuamente a rimpiattino, o perché la Natura
si arrabbia o perché la natura umana fa anche di peggio. Il risultato è che la
gente muore e il furto di bestiame è il modo con cui molta gente muore.
L’abigeato come primaria causa di mortalità adulta.
Il 15 agosto scorso, a Beroy, poco a nord di Itampolo, alle otto del mattino,
cinque malaso hanno ucciso un
allevatore di omby,
portandoglieli via tutti. La gente del villaggio si è messa sulle loro tracce,
osservando le impronte sulla sabbia. Ne hanno raggiunti tre uccidendoli sul
posto, mentre gli altri due sono riusciti a scappare nella boscaglia più
profonda, insieme alla piccola mandria che avevano rapito. Il padre di uno dei
due banditi uccisi, stando al racconto di Dongary, il gestore del Sud Sud che
vediamo qui in foto, voleva andare alla polizia e fare denuncia contro ignoti
per l’omicidio del figlio, ma poi ha desistito. Anche Dongary, che è lontano
parente del giovane linciato, ha detto che è stato meglio se il vecchio
genitore non ha fatto la denuncia perché il giovane ladro di omby era miola be di carattere, cioè fuori di testa e cattivo. Quindi, è stato meglio se
qualcuno l’ha tirato giù dalle spese. Non si sa se gli altri due malaso verranno mai catturati. Va aggiunto inoltre che uno
dei tre uccisi è rimasto dieci giorni esposto al sole nella boscaglia perché
nessuno della sua famiglia aveva il coraggio di andare a recuperarlo. Temevano
la vendetta del figlio dell’allevatore. Il luogo dove giaceva è stato, poi,
dato alle fiamme purificatrici. Tina, mentre passavamo nei pressi con il camion
brousse per tornare a Tulear, mi ha
detto di aver visto volteggiare i corvi sul quel macabro luogo maledetto.
Immagine da film western.
Furti di bestiame ce ne saranno sempre in Madagascar perché sono diventati una
consuetudine, ma trattandosi di un’attività che può avere risvolti mortali, mi
chiedo perché molti giovani decidano di dedicarvisi. Forse qualcuno potrebbe
rispondermi con un’altra domanda: perché nel sud Italia molti giovani subiscono
il fascino della malavita e si arruolano nella Mafia o nella Camorra? Se mi è
lecito supporre che in Madagascar ci sia una forza misteriosa che potremmo
chiamare “Cupio dissovi” e che
porta tanti giovani a diventare malaso, come se sapessero di andare incontro alla morte, si potrebbe dire la
stessa cosa anche dell’Italia?
Ovvero,
c’è un desiderio inconscio di morte in molti – chiamiamoli così – giovani
guerrieri che scelgono la strada della violenza e dell’illegalità?
Io
non posso rispondere a queste domande perché non ho le competenze per farlo, ma
siccome nei telegiornali e sulla carta stampata si mostrano spessissimo le foto
dei malaso uccisi dalla gente
inferocita, non dovrebbero queste immagini fungere da deterrente all’entrata
nella confraternita dei malaso?
C’è dietro qualche rito d’iniziazione? C’è qualche pulsione di morte che io non
riesco a intravedere? Forse un giorno qualcuno, malgascio o vazaha che sia, riuscirà a chiarirmi questo enigma
antropologico.
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