Sono
stato tre volte in Sudafrica, al seguito di una miliardaria sudafricana di
lingua inglese che era diventata tale grazie al fatto che suo nonno si era
arricchito con il vino e perciò avevo già sentito parlare del vino di Namaqualand.
Forse è proprio con quella qualità di vino che suo nonno aveva fatto i soldi.
Quindi, venuto a sapere che presso il ristorante Lakana Sucre, la piroga
zuccherata, servivano quel tipo di vino d’importazione, ne ho ordinato un
calice. Tempo addietro avevo già provato il vino malgascio, prodotto sugli
altipiani di Fianarantsoa, ma in tutta sincerità mi era sembrato di bere aceto.
Il Namaqua invece, se posso improvvisarmi intenditore di vini, ha un sapore
corposo, robusto, avvolgente, dal retrogusto di diamanti e miniere d’oro e fa
venire in mente la regina di Saba. L’ho centellinato lentamente, anche se da
birrofilo non posso dire di esserne rimasto del tutto soddisfatto.
La
padrona del Lakana Sucre è un'americana che ha sposato un malgascio rasta, ma
Tina dice che si sono già separati. Quando s’incontrano fra donne, il
passatempo preferito è Radio Babaky,
cioè fare pettegolezzi. E’ incredibile la quantità di tempo ed energia che le
donne malgasce impiegano spettegolando. E’ vero però che anche la piccola
comunità di italiani residenti non scherza, in fatto di aneddoti personali
riguardanti terzi. Nei tre giorni in cui ci siamo fermati a Mangily, il Lakana
Sucre è il ristorante dove siamo stati più spesso, non solo perché la cucina è
buona, ma anche perché ci sono quattro o cinque cani ben pasciuti che la donna americana tiene presso di sé, permettendo loro di stazionare pazientemente vicino
i tavolini, in attesa che i clienti elargiscano qualche bocconcino. Sono cani
davvero fortunati. Nessun proprietario di ristorante malgascio lo avrebbe
permesso.
Abbiamo
chiesto i nomi dei cani alle cameriere: Kapiky, Mama Kapiky, Tsynefo, ecc. più un gatto di
nome Tongolo, tutti nomi di verdure commestibili. Uno di questi cagnetti per
due sere di seguito ha avuto un comportamento protettivo nei miei confronti,
forse perché non gli avevo lesinato carezze e cibo. Finito di cenare, io e Tina
ci siamo diretti verso il nostro bungalow, che dista un centinaio di metri. Il
cane si è messo a scortarci ringhiando, cioè avvisando gli altri cani dei
ristoranti vicini che sarebbe passato e che non si azzardassero a mordere il vazaha e la sua compagna malgascia, che erano sotto la sua
protezione. Tina aveva paura, anche se le ho spiegato che il nostro
accompagnatore a quattro zampe non ringhiava a noi ma agli altri cani. I
malgasci hanno un pessimo rapporto con il più fedele amico dell’uomo.
Il
ristorante annesso al Maroloko, che una volta si chiamava Chez Alban, ha prezzi
troppo alti e non ha avuto l’onore di annoverarci fra i suoi clienti. Inoltre,
fa pagare il wi fi 3.000 ariary all’ora, quando in tutti i ristoranti del mondo
è gratis. Ma qui siamo a Mangily. Al ristorante Che Alex ci siamo stati una
volta sola, il primo giorno, ma siccome ci hanno fatto aspettare un’ora prima
di servirci, benché fosse vuoto, abbiamo deciso di non tornarci più: piccole
vendette di clienti affamati.
Poi,
l’ultimo giorno, abbiamo scoperto che sotto il grande tamarindo, punto di
ritrovo storico di Mangily, non solo è possibile fare colazione malgascia, con
caffè e boko boko, che sono
piccoli krapfen di farina, ma anche pranzare e cenare. Vi abbiamo mangiato
infatti vary e tsaramaso mena, cioè riso e fagioli rossi. Più birra e bibita:
13.000 ariary. Negli altri ristoranti non venivamo via senza aver speso dai 20.000
ai 28.000 e magari senza essere veramente sazi, vista l’esiguità delle
porzioni. L’igiene, come si può immaginare, non è ai più alti livelli, ma ciò
nonostante, molti vazaha lo
frequentano, specie i residenti che non possono permettersi di spendere come
fossero normali turisti. In tutti i ristoranti, per stranieri o per gasy,
servono aragoste, pesce fritto, i rinomati ricci di mare con limone e le cicale
di mare, che si vedono in foto e che non avevo mai visto da vicino. Io che non
mangio queste prelibatezze l’anno scorso, dal gestore francese del Sud Sud di
Itampolo, sono stato definito Vazaha voalavo, cioè “straniero topo”. Ovvero rosicante.
E’
il bello di essere vegani: morigerati e incompresi.
Speriamo che quei bicchieri di vino o di birra con cui sei solito brindare, non nascondano sofferenze animali:
RispondiEliminahttp://www.veganitalia.com/modules/wordbook/entry.php?entryID=6
Anni fa mio padre produceva vino in proprio (Merlot) e io gli davo una mano. Non ho mai visto (né sentito dire) che si usassero prodotti di origine animale nella sua preparazione.
EliminaQuanto alla birra non so, ma credo sia sicura da questo punto di vista.
Chissà se riuscirò a prendere casa tra i malgasci per non far più ritorno in Italia.
RispondiEliminaBuona vita Roberto , spero di poterti risentire presto
Un abbraccio.
LW