domenica 10 agosto 2014

Alla salute degl’invidiosi



Sono stato tre volte in Sudafrica, al seguito di una miliardaria sudafricana di lingua inglese che era diventata tale grazie al fatto che suo nonno si era arricchito con il vino e perciò avevo già sentito parlare del vino di Namaqualand. Forse è proprio con quella qualità di vino che suo nonno aveva fatto i soldi. Quindi, venuto a sapere che presso il ristorante Lakana Sucre, la piroga zuccherata, servivano quel tipo di vino d’importazione, ne ho ordinato un calice. Tempo addietro avevo già provato il vino malgascio, prodotto sugli altipiani di Fianarantsoa, ma in tutta sincerità mi era sembrato di bere aceto. Il Namaqua invece, se posso improvvisarmi intenditore di vini, ha un sapore corposo, robusto, avvolgente, dal retrogusto di diamanti e miniere d’oro e fa venire in mente la regina di Saba. L’ho centellinato lentamente, anche se da birrofilo non posso dire di esserne rimasto del tutto soddisfatto.


La padrona del Lakana Sucre è un'americana che ha sposato un malgascio rasta, ma Tina dice che si sono già separati. Quando s’incontrano fra donne, il passatempo preferito è Radio Babaky, cioè fare pettegolezzi. E’ incredibile la quantità di tempo ed energia che le donne malgasce impiegano spettegolando. E’ vero però che anche la piccola comunità di italiani residenti non scherza, in fatto di aneddoti personali riguardanti terzi. Nei tre giorni in cui ci siamo fermati a Mangily, il Lakana Sucre è il ristorante dove siamo stati più spesso, non solo perché la cucina è buona, ma anche perché ci sono quattro o cinque cani ben pasciuti che la donna americana tiene presso di sé, permettendo loro di stazionare pazientemente vicino i tavolini, in attesa che i clienti elargiscano qualche bocconcino. Sono cani davvero fortunati. Nessun proprietario di ristorante malgascio lo avrebbe permesso.

Abbiamo chiesto i nomi dei cani alle cameriere: Kapiky, Mama Kapiky, Tsynefo, ecc. più un gatto di nome Tongolo, tutti nomi di verdure commestibili. Uno di questi cagnetti per due sere di seguito ha avuto un comportamento protettivo nei miei confronti, forse perché non gli avevo lesinato carezze e cibo. Finito di cenare, io e Tina ci siamo diretti verso il nostro bungalow, che dista un centinaio di metri. Il cane si è messo a scortarci ringhiando, cioè avvisando gli altri cani dei ristoranti vicini che sarebbe passato e che non si azzardassero a mordere il vazaha e la sua compagna malgascia, che erano sotto la sua protezione. Tina aveva paura, anche se le ho spiegato che il nostro accompagnatore a quattro zampe non ringhiava a noi ma agli altri cani. I malgasci hanno un pessimo rapporto con il più fedele amico dell’uomo.


Il ristorante annesso al Maroloko, che una volta si chiamava Chez Alban, ha prezzi troppo alti e non ha avuto l’onore di annoverarci fra i suoi clienti. Inoltre, fa pagare il wi fi 3.000 ariary all’ora, quando in tutti i ristoranti del mondo è gratis. Ma qui siamo a Mangily. Al ristorante Che Alex ci siamo stati una volta sola, il primo giorno, ma siccome ci hanno fatto aspettare un’ora prima di servirci, benché fosse vuoto, abbiamo deciso di non tornarci più: piccole vendette di clienti affamati.

Poi, l’ultimo giorno, abbiamo scoperto che sotto il grande tamarindo, punto di ritrovo storico di Mangily, non solo è possibile fare colazione malgascia, con caffè e boko boko, che sono piccoli krapfen di farina, ma anche pranzare e cenare. Vi abbiamo mangiato infatti vary e tsaramaso mena, cioè riso e fagioli rossi. Più birra e bibita: 13.000 ariary. Negli altri ristoranti non venivamo via senza aver speso dai 20.000 ai 28.000 e magari senza essere veramente sazi, vista l’esiguità delle porzioni. L’igiene, come si può immaginare, non è ai più alti livelli, ma ciò nonostante, molti vazaha lo frequentano, specie i residenti che non possono permettersi di spendere come fossero normali turisti. In tutti i ristoranti, per stranieri o per gasy, servono aragoste, pesce fritto, i rinomati ricci di mare con limone e le cicale di mare, che si vedono in foto e che non avevo mai visto da vicino. Io che non mangio queste prelibatezze l’anno scorso, dal gestore francese del Sud Sud di Itampolo, sono stato definito Vazaha voalavo, cioè “straniero topo”. Ovvero rosicante.
E’ il bello di essere vegani: morigerati e incompresi.

3 commenti:

  1. Speriamo che quei bicchieri di vino o di birra con cui sei solito brindare, non nascondano sofferenze animali:

    http://www.veganitalia.com/modules/wordbook/entry.php?entryID=6

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    1. Anni fa mio padre produceva vino in proprio (Merlot) e io gli davo una mano. Non ho mai visto (né sentito dire) che si usassero prodotti di origine animale nella sua preparazione.

      Quanto alla birra non so, ma credo sia sicura da questo punto di vista.

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  2. Chissà se riuscirò a prendere casa tra i malgasci per non far più ritorno in Italia.
    Buona vita Roberto , spero di poterti risentire presto
    Un abbraccio.
    LW

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