Se fossi un cane, come mia moglie ne è convinta, cercherei di scappare dal
Madagascar, ma ovunque scappassi alla fine incontrerei il mare. E allora, in
questa immensa prigione a cielo aperto che è la Grande Isola, piccolo cortile
del più vasto pianeta Terra, non ci resta altro, a noi cani a due e a quattro
gambe, che tirare alla fine della giornata cercando di farci fare meno male
possibile dai Kapò aguzzini che si credono padroni. I quali, basta che gli
metti un famaki ben affilato in
mano, un’accetta da boscaiolo, e si credono dei padreterni. Martedì pomeriggio,
mentre maturavo la consapevolezza che non sarei riuscito a collegarmi a
internet per spurgare terapeuticamente le mie frustrazioni di straniero in
terra straniera, sono arrivati i parenti da Koritsiky, tra cui la madre
naturale di Tina. Tutti Tanalana. E c’era un elemento in più di fronte alla
casa di Fanolihany: un omby
legato a un albero di samata.
Tina mi ha detto che ogni villaggio ne porta il più possibile per macellarli
durante la festa di venerdì 22 agosto, chiamata Hasomanga, che si tiene ogni
anno presso Marolinta. I Tanalana di Koritsiky, il loro, lo avevano legato
proprio davanti ai miei occhi. Così, aspettando di sentire i suoi muggiti tutta
la notte, notte insonne e amara, ho cercato di spiegare a Tina la differenza
tra dolore fisico e dolore morale e, inaspettatamente, Tina l’ha capita. A poco
mi serviva pensare che lui, lo zebù da sacrificare alla ferocia umana, non
fosse consapevole di ciò che lo aspettava di lì a due giorni. Io lo sapevo e
soffrivo nel vederlo così placido a masticare le ramaglie che gli avevano messo
a disposizione. Non potevo fare a meno di pensare al freddo acciaio che avrebbe
posto fine alla sua vita di prigioniero della Grande Prigione.
L’arrivo dell’omby ha contribuito
alla decisione di partire un giorno prima da Besely Nord, mercoledì anziché
giovedì, ma, incredibilmente, a testimonianza del fatto che i malgasci se
vogliono sanno anche essere gentili, la mattina di mercoledì lo zebù non era
più al suo posto. Chieste spiegazioni a Tina, mi è stato risposto che i suoi
parenti, a cui lei aveva spiegato le “fisime” di suo marito, lo avevano
parcheggiato da un’altra parte del villaggio, affinché io non mi ammalassi. Ha
usato proprio questa parola. Evidentemente, anche il selvaggio più selvaggio ha
un minimo di empatia, se non verso le bestie, almeno verso le superbestie che
sono i vazaha. Succede raramente
che i malgasci si immedesimino nella psicologia di noi bianchi, anche se io non
sono rappresentativo della categoria.
Mercoledì 20 agosto Tina ha trovato un carretto, guidato da Toetra, papà di
Odillon e Sammy. Prezzo pattuito 15.000 ariary, 5 euro. Chilometri da
percorrere circa 15, o forse 18, su pista sabbiosa. Destinazione: Itampolo.
Cinque anni fa l’avevo già fatta tutta a piedi ed ero arrivato quasi morto. Ero
dunque un po’ preoccupato perché sono entrato da un pezzo nell’età dell’infarto
e anche se siamo in inverno il caldo e la fatica sono uguali. Dunque, davo per scontato
che un pezzo di strada l’avrei fatto a bordo del rustico mezzo, venendo meno ai
miei principi, perché a un certo punto, quando è questione di sopravvivenza,
scatta il “gene egoista” di cui parla Vito Mancuso e i principi possono anche
andare a farsi benedire.
E’ stato così che fino a mezzogiorno ho camminato a piedi, a fianco, dietro o
davanti alla carretta, scambiando saluti con i rari viandanti che incrociavo,
ma dopo la sosta presso un mercato, dove gli zebù hanno mangiato le pale dei fichi
d’India che Toetra aveva raccolto lungo la strada, sono salito a bordo e ogni
frustata data ai due omby era una
frustata che io stesso davo loro, con il mio peso. Mancavano
approssimativamente cinque Km a Itampolo.
Tuttavia, dopo tre Km sono saltato a terra ed è stato di lì a poco che mi sono
accorto che uno dei due, non a caso quello nero, ansimava vistosamente. E a
quel punto è successa una cosa interessante. Ho chiesto al conducente se gli si
poteva dare da bere e Tina non solo mi aveva già passato una bottiglia d’acqua,
ma si accingeva a recuperare una piccola pentola in mezzo ai nostri bagagli, da
usarsi come contenitore. Toetra ha detto che non serviva e che gli omby avrebbero bevuto una volta arrivati a destinazione,
presso un pozzo fuori Itampolo. La cosa rimarchevole è che la pentola in cui
eventualmente avrebbe bevuto lo zebù non sarebbe diventata fady come succede con i piatti o le bacinelle con cui
offro pane e latte ai cani, perché nella cultura malgascia i cani sono sporchi,
mentre gli zebù sono sacri e puliti. Ne deriva che, in quanto sacri vengono
sfruttati nei campi e come mezzo di locomozione, oltre che macellati, mentre i
cani, visti come competitori per il cibo e parassiti, se la passavo proprio
male e tutto ciò che entra in contatto con loro diventa contaminato. Noi
zoofili, cinofili e animalisti l’abbiamo davvero dura con questa gente!
Arrivati
al Sud Sud, di proprietà del francese Alain, che gestisce anche un altro
ristorante a Tulear e per questa ragione non è mai a Itampolo, Toetra ha deciso
di ritornare subito indietro, visto che erano solo le tre del pomeriggio,
anziché fermarsi a dormire nel villaggio onde evitare il rischio di fare brutti
incontri, con il buio, durante il tragitto. Se questo era favorevole per lui, non
lo era per i due omby, già
stanchi per i 15 (o 18?) Km che avevano già fatto. Anziché 15.000 ariary ho
detto a Tina di dargliene 20.000, comprensivi di mancia, e posso immaginare che
la maggior parte di quei soldi gli serviranno per comprare rhum Telma, molto
apprezzato nella brousse. Del
resto, sono affari suoi. Se la vita di omby e alika
è un inferno, quella dei gasy è
di poco migliore. Una doccia con acqua fredda, e un gabinetto tutto a mia
disposizione, hanno fatto di me, dopo una sgroppata di 15 Km (o erano 18?)
sotto il sole tropicale, l’uomo più felice del Madagascar. Tina invece
mugugnava perché voleva stare con la sua famiglia, ma per una volta tanto – ubi
major, minor cessat – ha scelto di
stare con il suo marito alika. Il
suo bizzarro marito cane.
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