Domenica 10 agosto eravamo nella foresta alle spalle di Mangily. Vi sono stato
già diverse volte, negli anni scorsi, da solo o con Tina. La prima volta,
trovata una tartaruga, mi aveva detto che per la loro etnia è fady, tabù e che non solo non le mangiano, ma evitano
anche di toccarle. Così, per insegnarle la differenza tra realtà e
superstizione, le ho chiesto di toccarla, per farle vedere che, una volta
toccata, le dita delle mani non le sarebbero cadute. Lo fece di malavoglia e infatti,
come avevo previsto, le dita non le sono cadute. A seconda della stagione,
nella foresta spinosa di Mangily trovavo coleotteri, sauri come il razamboa e il sondro, nonché il boa del Madagascar; uccelli di terra e d’aria, come,
rispettivamente, le akanga (faraone) e il cuculo dallo sperone. Di mammiferi
c’è il vontira, in italiano
microcebo murino, ma è impossibile vederlo di giorno. Pesci e anfibi niente,
visto l’ambiente arido e spinoso. Dunque, vi trovavo principalmente rettili
come i camaleonti e le dangalie,
simili a lucertole e tantissimi insetti. La vegetazione è costituita da fichi
d’India, Sono che viene usato per
le recinzioni, baobab ed euforbie varie, oltre ad alcune specie di agavi tra
cui l’aloe vera, chiamata vaho,
usatissima nella farmacopea malgascia e mondiale.
Da diverso tempo Tina mi diceva che per rendere il terreno appetibile dal punto
di vista speculativo, si bruciano gli alberi, così da invogliare vazaha e malgasci ricchi a comprare pezzi di quella che un
tempo era foresta. Ho tristemente notato che è vero. Facevano pena i cinque o
sei sifotsy, chiamati anche boloko, oppure vasa e che in definitiva sono pappagalli neri, che abbiamo visto posati
tutti sullo stesso albero. Una volta che sarà tagliato anche quello, dove andranno
a nidificare, o anche solo a posarsi?
Alle 8.20 del mattino eravamo davanti alla casa di Refily, che il giorno prima
aveva sottoposto a circoncisione quello che credevo fosse suo figlio e che –
abbiamo scoperto poi – era invece suo nipote, figlio di sua figlia. Sabato, un
po’ per scherzo un po’ perché in qualche modo dovevamo scortecciare gli alberi
caduti, gli avevo chiesto di portare lefo, lancia, folesy, fionda, famaky, scure e lui, per strafare, di scuri ne ha portate
due più una frombola, che in malgascio si chiama pilatsy. Essere armati durante
le visite alla foresta è più che altro una protezione di tipo psicologico,
perché se si dovessero incontrare i malaso, i banditi, saremmo ugualmente inermi di fronte alla loro
determinazione e cattiveria. Per fortuna, come per le strade, anche la foresta
di giorno è sicura, a differenza della notte. E poi non ci siamo spinti troppo
lontano.
Anche se ha sottoposto suo nipote a un rito barbaro e ancestrale, Refily è un
uomo gentile, di etnia Masikoro (quelli che mangiano i gatti) e la sua
caratteristica è che ride sempre, non nel senso dispregiativo del nostro
proverbio: “Il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, ma perché quello è il
suo modo di comunicare con il prossimo, cioè mettendolo a proprio agio e
dimostrando disponibilità e non pericolosità. E’ un fenomeno raro e mi era
capitato di incontrare persone così anche in Italia. Quando lo abbiamo
conosciuto anni addietro era guardiano notturno Chez Alban. Oggi fa lo stesso
lavoro al Dune Hotel, un albergo a cinque stelle. Entrambi si affacciano sul
mare. Domenica, come tutti i giorni, aveva smesso di prestare servizio alle sei
del mattino e alle otto è venuto con noi come guida, ma non era per niente
stanco.
Anche quest’anno ho voluto essere io a portare il lefo, più che altro per
sentirmi partecipe degli stili di vita del sud malgascio, ma nella realtà solo
per far divertire le rare persone che abbiamo incrociato, dal punto di vista
delle quali dev’essersi trattato di una visione piuttosto buffa: un vazaha con la lancia. Quando dovevo mettere mano alle
macchine fotografiche, la digitale e l’analogica, piantavo il lefo nella sabbia dalla parte opposta della punta, che è
munita di un’asta di ferro utile come leva. A Refily il compito di rompere i
tronchi resi friabili dalle termiti.
C’era un’infinità di tronchi abbattuti, la maggior parte dei quali per opera
dell’uomo, ma in parte anche per quella delle termiti, che in malgascio si
chiamano neno. Tina e Refily non
capiscono l’utilità degli insetti demolitori, perché le neno hanno la brutta abitudine di mangiare anche le case
degli uomini e infatti non c’è camera d’albergo che di notte non abbia come
sottofondo il suono del legno rosicchiato. Perfino al Pavillon de Jade, in
piena città a Tanà, gli stipiti delle porte sono sotto attacco. Per questa
ragione, per i notevoli danni che questi bianchi insettini lucifughi compiono,
i malgasci si fanno costruire i mobili in palissandro, inattaccabile dalle
termiti. Chi può permetterselo, ovviamente. Ma in natura è diverso. Cosa
succederebbe se non esistessero spazzini e distruttori? Il mondo vegetale
avrebbe il sopravvento e non ci sarebbe più spazio fisico per gli organismi
deambulanti.
A causa della stagione fredda (si fa per dire) camaleonti e coleotteri non si
sono fatti vedere. Le dangalie
sono uscite sul tardi e di sondro,
che ancora più della dangalia è
simile a una lucertola, ne ho visto uno solo di piccole dimensioni. Le dangalie stavolta non le ho fotografate, benché siano confidenti,
perché negli anni scorsi di loro foto ho fatto incetta, in tutte le salse. Il sondro invece è difficile da fotografare, mentre il razamboa, simile a un ramarro color crema, si lascia
avvicinare a breve distanza. Non c’è voluto molto, però, rimuovendo le cortecce
degli alberi a terra, trovare le sanda, una specie di scuro scarafaggio corazzato che si trova anche nelle
case dei villaggi e che soffia aria da qualche suo pertugio quando disturbato.
Qui ne vediamo uno insieme a uno scorpione.
Questi ultimi, chiamati hala,
sono molto temuti ed è facile capire perché. Un gasy che stava disboscando poco distante, ci ha chiamato
perché ne aveva trovato uno grosso e ce l’ha portato su una corteccia, come su
un vassoio. Tutti gli insetti che abbiamo scovato probabilmente stavano
dormendo in quella che si potrebbe chiamare ibernazione, termine che fa venire
in mente la neve e il ghiaccio del Paleartico, ma che indica solo la pausa
invernale a cui anche gli animali dei tropici si sottopongono. Che poi, qui sul
Capricorno, valgono altre regole, come vedremo fra poco con quella che è stata
la chicca della giornata e, per me, una vera sorpresa. Degli scorpioni so poco.
So solo che sono aracnidi molto antichi, quasi dei fossili viventi e a Tanà i
cinesi li usano nella loro farmacopea.
Di un’altra specie interessante voglio parlare: il tsakoririky, una cavalletta carnivora che ho scoperto proprio
qui a Mangily nel 2008 e sempre grazie a Refily nei panni dello scortecciatore.
Fino a quell’epoca, non pensavo minimamente che potessero esistere cavallette
carnivore, se escludiamo le mantidi, avendole sempre associate al consumo di
erba e foglie. Chiesto conferma a Refily sull’alimentazione del curioso
ortottero, mi è stato detto che mangia piccoli insetti e rosicchia anche il
legno. Presumo che in realtà mangi funghi o muffe che crescono sulla corteccia,
dato che gli unici insetti capaci di digerire la cellulosa sono le termiti.
Anche questa cavalletta, al pari della sanda, se toccata emette un soffio d’aria di avvertimento
e se si esaminano i colori, giallo e nero, si constata che sono gli stessi di
api e vespe, cioè colori di pericolo per mettere in guardia gli eventuali
malintenzionati.
Infine, ecco la vera sorpresa: il marotanaka, letteralmente “molte mani”. In realtà ne ha otto
come tutti i ragni, ma le dimensioni sono impressionanti. Niente a che vedere
con le migali amazzoniche, chiamate appunto ragni giganti, ma anche questo trambo, ragno, fa la sua sporca figura, con i suoi sei
centimetri di larghezza da un’estremità all’altra delle lunghe zampe. Mia
figlia Orsetta, aracnofoba, se solo lo vedesse cadrebbe svenuta, ma per fortuna
a Trieste non ce ne sono di così grossi. Uno dei tre che abbiamo trovato sotto
una corteccia avrà avuto una cinquantina di bebé bianchicci, che si sono
sparpagliati dappertutto una volta venuti allo scoperto. Per fortuna, data la
stagione, non ci devono essere molti predatori in circolazione, cosicché hanno
potuto trovare rifugio entro breve tempo. Anche la madre ha fatto il giro del
tronco e si è solo spostata un po’, senza dar segni di nervosismo. A darli
piuttosto ero io, che mi sono dovuto avvicinare il più possibile per
fotografarla.
Refily scortecciava e guardava dentro la cavità dei tronchi senza guanti. Se
fosse stato morsicato da un marotanaka o da un hala, o anche da
un tsakoririky, avremmo dovuto
portarlo di corsa da un ombiasy.
Sicuramente ce ne sono anche a Mangily. Noi, quelli di noi che sono previdenti
e accorti, quando facciamo un’escursione in montagna, ci portiamo dietro il
siero antivipera. Qui in Madagascar, Refily e gli altri disboscatori dovrebbero
portarsi dietro il siero per una mezza dozzina di animaletti velenosi e quindi
forse è più facile tenersi in tasca un talismano passe-par-tout, come solo gli ombiasy malgasci sanno preparare. I quali, invece di tante
stupidaggini, dovrebbero preparare qualche pozione magica per fermare la
distruzione della foresta. Ma che funzioni veramente!
In verità qua da noi solo degli sprovveduti si porterebbero dietro il siero antivipera dati che pare essere più pericoloso della vipera stessa...
RispondiEliminaSerpenti velenosi in Madagascar nulla?
Vero!
EliminaCome in Sardegna e nelle altre isole del pianeta, anche in Madagascar non ci sono serpenti velenosi.
Tuttavia, i malgasci ne sono ugualmente terrorizzati.
Retaggio ancestrale.