mercoledì 11 marzo 2015

Il cane che torna al suo vomito



Fonte: Wired

Quando ho sentito parlare per la prima volta di reducetariani ero già annoiata: ah beh, mangiare meno carne, certo, e quindi? L’idea di avere un nuovo nome per definirmi non mi eccitava neanche un po’. Non mi sembrava di averne bisogno per dire: che mangio poca carne per i soliti motivi (ambiente, animali, salute); che non sono più vegetariana perché nel mio caso l’assenza di carne era più una devianza psichica; che mangio qualche volta carne rossa perché me l’ha detto il dottore, capitandomi di soffrire di una brutta anemia. Ogni tanto mangio la carne anche – ve lo dico – perché è comodo, perché è facile e perché è buono, e anche perché è cultura, e non posso pensare di viaggiare vicino o lontano sfarfugliando in continuazione “cosa c’è dentro?”. Poi invece ho capito che l’introduzione di quella parola nuova serviva proprio, ed era un messaggio chiaro rivolto a chi odia e disprezza i carnivori.

 
Da ex vegetariana posso capire quest’odio: uno che non mangia carne ha affrontato tante difficoltà, e ne affronta ogni giorno, per cui si incattivisce per forza contro chi non è neppure sfiorato dall’atroce dubbio morale e dal categorico imperativo sociale di non masticare tessuto connettivo di un essere senziente atrocemente ucciso per quello scopo. Il pensiero diventa dominante, e spesso scatta una gara con se stessi – ma anche con il resto del mondo – per cui si parte vegetariani, si svolta vegani e ci si sveglia fruttariani. Durante il tragitto, l’odio per i carnivori non può che crescere. Il club era così esclusivo, che chi era – diremmo oggi – reducetariano, e per esempio mangiava pesce, non lo diceva. Conosco una marea di “vegetariani-ma-il-pesce-sì”. Che non ha senso, perché i pesci sono senzienti e intelligenti come gli altri animali (pensiamo al polpo) e il depauperamento dei mari è un problema probabilmente più grave degli allevamenti intensivi, per non parlare del fatto che da un punto di vista salutistico mangiare pesce è ormai, per molti prestigiosi istituti, quasi sinonimo di auto-avvelenamento. Secondo un’indagine, addirittura il 43% dei vegetariani non è un vegetariano “puro”.

Ecco, oggi è arrivata la parola reducetariano e non serve più prendersi in giro: siamo tutti promossi a esseri sensibili e consapevoli se scegliamo un giorno senza carne, se riduciamo al minimo la carne rossa, gli affettati, il pesce, il pollame e i frutti di mare e, dato che ci siamo, diamo pure una sforbiciata ai latticini. La verità è che il messaggio vegetariano ha fallito, che l’80% dei vegetariani smette di esserlo, e che appunto anche i vegetariani che non lo ammettono a se stessi incorrono in peccati di carne. Invece, il reducetarianesimo unisce anziché dividere: vegetariani e vegani sono in fondo anche loro reducetariani, fino al punto di escludere la carne del tutto, e il concetto di riduzione apre alla possibilità di non focalizzare sulle differenze, ma sull’impegno sociale, umano e salutista di mangiare meno carne, a prescindere da dove esattamente ci troviamo in questo grande spettro di buone intenzioni e virtù applicate alla salvezza – scusate se è poco – del mondo.

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