Quando ho sentito
parlare per la prima volta di reducetariani
ero già annoiata: ah beh, mangiare meno carne, certo, e quindi?
L’idea di avere un nuovo nome per definirmi non mi eccitava neanche
un po’. Non mi sembrava di averne bisogno per dire: che mangio poca
carne per i soliti motivi (ambiente, animali, salute); che non sono
più vegetariana perché nel mio caso l’assenza di carne era
più una devianza
psichica; che mangio qualche volta carne rossa perché me
l’ha detto il dottore, capitandomi di soffrire di una brutta
anemia. Ogni tanto mangio la
carne anche – ve lo dico – perché è comodo, perché è facile e
perché è buono, e anche perché è cultura, e non posso pensare di
viaggiare vicino o lontano sfarfugliando in continuazione “cosa c’è
dentro?”. Poi invece ho capito che l’introduzione di quella
parola nuova serviva proprio, ed era un messaggio chiaro rivolto a
chi odia e disprezza i carnivori.
Da ex vegetariana
posso capire quest’odio: uno che non mangia carne ha affrontato
tante difficoltà, e ne affronta ogni giorno, per cui si incattivisce
per forza contro chi non è neppure sfiorato dall’atroce dubbio
morale e dal categorico imperativo sociale di non masticare tessuto
connettivo di un essere senziente atrocemente ucciso per quello
scopo. Il pensiero diventa dominante, e spesso scatta una gara con se
stessi – ma anche con il resto del mondo – per cui si parte
vegetariani, si svolta vegani e ci si sveglia fruttariani. Durante il
tragitto, l’odio per i carnivori non può che crescere. Il club era così
esclusivo, che chi era – diremmo oggi – reducetariano, e per
esempio mangiava pesce, non lo diceva. Conosco una marea di
“vegetariani-ma-il-pesce-sì”.
Che non ha senso, perché i pesci sono senzienti e intelligenti come
gli altri animali (pensiamo al polpo)
e il depauperamento dei mari è un problema probabilmente più grave
degli allevamenti intensivi, per non parlare del fatto che da un
punto di vista salutistico mangiare pesce è ormai, per molti
prestigiosi istituti, quasi
sinonimo di auto-avvelenamento. Secondo un’indagine,
addirittura il
43% dei vegetariani non è un vegetariano “puro”.
Ecco, oggi è arrivata
la parola reducetariano e non serve più prendersi in giro: siamo
tutti promossi a esseri sensibili e consapevoli se scegliamo un
giorno senza carne, se riduciamo al minimo la carne rossa, gli
affettati, il pesce, il pollame e i frutti di mare e, dato che ci
siamo, diamo pure una sforbiciata ai latticini. La verità è che il messaggio
vegetariano ha fallito, che l’80%
dei vegetariani smette di esserlo, e che appunto anche i
vegetariani che non lo ammettono a se stessi incorrono in peccati di
carne. Invece, il
reducetarianesimo unisce anziché dividere: vegetariani e vegani sono
in fondo anche loro reducetariani, fino al punto di escludere la
carne del tutto, e il concetto di riduzione apre alla possibilità di
non focalizzare sulle differenze, ma sull’impegno sociale, umano e
salutista di mangiare meno carne, a prescindere da dove esattamente
ci troviamo in questo grande spettro di buone intenzioni e virtù
applicate alla salvezza – scusate se è poco – del mondo.
excusatio non petita...
RispondiElimina...accusatio manifesta!
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