Testo di Rita Jemma
È l’8 marzo dell’anno 415, un lunedì di quaresima per i
cristiani di Alessandria d’Egitto. Un lunedì di silenzio e
preghiera. Un lunedì di guerra. Ipazia, matematica, astronoma,
filosofa neoplatonica e insegnante di grande prestigio, sta tornando
a casa. Poco più che cinquantenne, è la più importante
intellettuale della città, un punto di riferimento non solo per i
suoi studenti, ma anche per le autorità politiche e religiose. Non è
serena: la tensione è salita alle stelle da quando il vescovo
Cirillo è entrato in conflitto con il prefetto Oreste e c’è chi
ha messo in giro la voce che sia proprio lei a impedire la
riconciliazione.
Non è serena Ipazia, ma non si aspetterebbe
mai quello che sta per succedere. La sua lettiga viene
improvvisamente circondata da un gruppo di diavoli inferociti: sono
fanatici cristiani guidati da Pietro. La assalgono e la tirano giù
dalla lettiga, la picchiano. Lei cerca di dimenarsi, chiede aiuto, ma
il suo grido è coperto da quello degli assalitori infervorati e
soffocato dal suo stesso sangue. La trascinano fino al Cesareo,
l’ex tempio di Augusto diventato la Cattedrale dei cristiani, e qui
le strappano la veste, la lasciano nuda di fronte all’altare.
Pietro la colpisce con una mazza ferrata mentre gli altri raccolgono
dei cocci appuntiti e con questi iniziano a colpirla. Uno, dieci,
cento volte il suo corpo viene trafitto in un’orgia mistica di
sangue, grida, preghiere, delirio. Ipazia viene scorticata fino
alle ossa e respira appena quando le si avventano sul volto e le
cavano gli occhi, ma anche dopo che il suo cuore ha smesso di battere
la furia non si ferma: la sua carne viene strappata, il suo corpo
fatto a brandelli. Le staccano la testa, le braccia, le gambe;
continuano a farla a pezzi finché di ciò che era stato Ipazia
d’Alessandria non rimane che una poltiglia sanguinolenta. Allora
portano ciò che resta all’inceneritore e bruciano tutto, senza
lasciare traccia di una delle donne più importanti della storia
dell’umanità.
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