giovedì 1 gennaio 2015

I cinesi distruggono le foreste malgasce

 

Foto di Francesco Spizzirri

Procediamo controcorrente nelle acque basse del Fiume Onive. In piedi sulla piroga, Remon, un giovane in calzoncini e canottiera, spinge avanti l’imbarcazione con una lunga pertica di bambù. Sopra di noi il cielo minaccioso dispensa raffiche di pioggia, poi sole, poi ancora pioggia. Il ragazzo non se ne cura, così come ignora i coccodrilli prostrati sulla riva. Altri uomini in piroga navigano in direzione opposta. Remon li saluta con un grido, loro ricambiano. Sono i suoi “colleghi” del fiume, e ognuno trasporta un gigantesco tronco di legno di rosa (una varietà di palissandro) abbattuto illegalmente dalla foresta pluviale ai depositi di legname della città di Antalaha, nel Nord-Est del Madagascar. Lì riceveranno in cambio un assegno. Remon farà lo stesso dopo averci lasciati ai margini della foresta.


A Remon non piace questo lavoro. Il suo capo - di cui non conosce il nome - gli ha detto che deve lavorare tutto il giorno senza sosta; le guardie forestali sono state pagate per tenersi alla larga per un periodo limitato, al termine del quale si aspetteranno di ricevere un’altra bustarella. Trasportare alberi già abbattuti è comunque meglio che abbatterli. Remon lo sa bene: prima faceva quel lavoro, ma lo ha lasciato perché era diventato troppo rischioso. Benché fosse praticato da anni, l’abbattimento illegale ha subito una brusca impennata dal marzo 2009 quando, in seguito alla caduta del governo malgascio, i controlli sono scomparsi e la foresta ha cominciato a pullulare di bande organizzate scatenate in una corsa sfrenata al disboscamento, alimentata anche dall’insaziabile appetito di legname degli approvvigionatori cinesi, che nel giro di pochi mesi hanno importato dalle foreste del Nord-Est del paese legno di rosa per un valore di circa 160 milioni di euro. Remon racconta di un taglialegna di sua conoscenza al quale una banda ha rubato il legname con una minaccia semplice ma efficace: «Noi siamo in 30, tu sei solo».

A un certo punto la corrente del fiume si placa, e Remon accende una sigaretta di tabacco e marijuana. Parla dei fady, i tabù che hanno protetto per secoli la foresta. Ogni volta che un albero cade e sfonda la testa di qualcuno, o che qualcun altro si rompe una gamba nelle rapide del fiume, tra i predatori di legname si diffonde l’inquietudine: Abbiamo fatto arrabbiare i nostri antenati. Ci stanno punendo. Remon è stato avvertito dagli anziani dei rischi che si corrono nel depredare ciò che è sacro. «Ma provate voi a dare da mangiare alla vostra famiglia il legno di quegli alberi», ribatte.

Prima Remon sfamava la famiglia lavorando nelle piantagioni di vaniglia vicino ad Antalaha, città costiera che, come tutta l’isola, è ricca di risorse e povera sotto ogni altro punto di vista. Vent’anni fa, l’allora presidente del Madagascar, Didier Ratsiraka, andava talmente fiero della reputazione di Antalaha come capitale mondiale della produzione di vaniglia che mandò un funzionario a rendere omaggio alla città. «Il presidente credeva che avessimo grandi palazzi e strade asfaltate», racconta l’esportatore di vaniglia Michel Lomone. «Rimase profondamente deluso dal resoconto del suo consigliere».

Da allora, un susseguirsi di cicloni e il crollo dei prezzi hanno contribuito a privare la città del suo primato di “regina della vaniglia”. Oggi Antalaha è un centro polveroso e sonnolento, e anche se la sua arteria principale, Rue de Tananarive, è stata finalmente asfaltata nel 2005 con i fondi dell’Unione Europea, il traffico è costituito per lo più da qualche taxi malandato, biciclette arrugginite, pollame, capre, e soprattutto pedoni che camminano scalzi sotto la pioggia coprendosi la testa con le grandi foglie della cosiddetta “palma del viaggiatore”.

Così almeno è stato fino alla primavera del 2009. In quel periodo, infatti, per le strade di Antalaha sì è cominciato a udire il rombo delle motociclette. Nell’unico negozio di Rue de Tananarive che le vendeva sono andate a ruba in poco tempo, tanto che, in risposta alla grande richiesta, è stato aperto un secondo negozio sulla stessa strada. Gli acquirenti erano tutti giovani magri e ossuti, e chiunque ad Antalaha sapeva da dove provenissero i loro effimeri guadagni. Di sicuro non dalle piantagioni di vaniglia. Erano gli stessi giovani che si vedevano arrivare in città seduti sul retro di furgoni carichi di legname abbattuto illegalmente, e che si riempivano le tasche di facili guadagni abbattendo in modo selettivo i preziosi alberi di legno di rosa delle foreste del Madagascar.

[Fine prima parte - Seconda parte QUI - Terza parte QUI]


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