Fonte: Il Dubbio
Quando ha deciso di
farla finita Louie Tom Fenton aveva appena 12 anni, si è
impiccato nel bagno di casa mentre i genitori erano assenti. Da mesi
i compagni di scuola lo prendevano di mira, lo chiamavano «il
vegano bastardo», gli tiravano addosso pezzi di carne marcia, lo
umiliavano in pubblico con estrema crudeltà. Il classico incubo fatto di
angherie quotidiane, di depressione e attacchi di panico, uno stress
troppo forte per un ragazzino della sua età, tanto che Louie aveva
anche iniziato a fumare, pesantemente, decine di sigarette al giorno.
A mensa ormai mangiava in un tavolo separato perché lo
scopo dei bulli, di ogni bullo, non è solo vessarti ma isolarti
dalla tua comunità.
Quella di Hertford, cittadina britannica di 24mila anime nel cuore
dell’omonima contea dell’Hertfordshire, non era poi un modello di
coesione e solidarietà. Il caso del piccolo Louie Tom
Fenton è soltanto il picco tragico di un discorso sottostante, di
una cultura diffusa: l’odio per i vegetariani e in particolare per
i vegani. Un’ostilità talmente accesa che diversi sociologi hanno
coniato un termine ad hoc: “vegephobia” paragonandola
addirittura all’omofobia, al sessismo misogino e al razzismo, una
variante tra le altre del contemporaneo hate speech. Un
nuovo bersaglio globale su cui indirizzare le proprie frustrazioni.
In uno studio apparso
sul British Journal of Sociology, gli accademici Karen
Morgan e Matthew Cole analizzano
centinaia e centinaia di articoli di giornale e sui siti web da cui
emerge un’opinione molto sfavorevole nei confronti di vegetariani e
vegani, in sostanza in oltre il 75% delle pubblicazioni l’immagine
è fortemente negativa. In un’altra ricerca promossa dal Journal
of the American Dietetic Association emerge
con chiarezza l’isolamento sociale subito, anche tra membri della
stessa famiglia, spesso poco disposti a condividere ma anche
semplicemente a tollerare le scelte dei loro cari, specie tra le
classi sociali più basse. L’espansione vertiginosa di internet e
dei socialnetwork avvenuta negli ultimi anni ha permesso la creazione
di comunità virtuali di vegetariani e vegani ma allo stesso tempo ha
consentito ai loro nemici di organizzarsi in autentiche falangi di
bulli assetate
di sangue. Sangue vegano ovviamente. Basta scorrere la cassa di
risonanza del web per inciampare su insulti, minacce, prese in giro,
un lepido sarcasmo in cui il vegano nel migliore dei casi fa la
figura del gran coglione e nel peggiore dello stronzo che preferisce
la vita dei lombrichi a quella dei bambini. Caricature entrate da un
po’ di tempo a far parte del senso comune. Negli Stati Uniti un
imprenditore ha lanciato una fortunata linea di tee- shirt in cui
campeggia la scritta Nobody likes a vegetarian venduta a
centinaia di migliaia di esemplari, segno che quello
dell’anti- veganesimo è un mercato in piena espansione.
Per giustificare il malanimo
spesso viene chiamato in causa il «fanatismo», l’«intolleranza»
nei confronti dei carnivori equiparati a spietati assassini o, bene
che vada, a complici silenti del genocidio animale, ma si
tratta di casi estremi, di piccoli gruppi organizzati che
rappresentano a malapena se stessi. Nella gran parte dei casi chi
rinuncia a consumare carne, pesce e latticini compie una
scelta etica individuale,
non ha intenti settari, né intenzione di convertire il pianeta o il
vicino di pianerottolo a chissà quale culto, magari vuole soltanto
mangiare in pace il suo piatto di fagioli senza dover subire lo
stalking continuo di amici e parenti. «La percezione del vegano-
predicatore detentore della verità assoluta è quella più in voga,
ma si tratta di esempi piuttosto rari», spiega Matthew Cole.
Conosco personalmente decine di
vegetariani e vega-ni e quando ci si riunisce intorno a una tavola è
sempre ( ma proprio sempre) il commensale carnivoro che va in cerca
di guai. Quasi un format da cui esce fuori la conversazione tipo: –
Tu non mangi gli animali per sentirti superiore – Veramente no, è
una scelta etica personale – Non è vero, lo so che ci disprezzi!
– Guarda, non disprezzo
nessuno, credo il mio che sia un modo di ridurre la sofferenza degli
animali, ma tu fai come vuoi.
– Anche io amo gli
animali, non mi va di passare per un assassino!
– Non metto in dubbio che
ami gli animali e non sei un assassino.
– Comunque gli animali non
hanno una coscienza vera e propria, non soffrono come noi.
– Veramente hanno un
sistema nervoso e soffrono quanto gli esseri umani.
– Se fossi coerente non
mangeresti neanche la verdura, lo sai che anche le piante sono
sensibili?!
A questo punto i paradossi della
malafede chiudono lo scambio che però si ripeterà uguale a se
stesso chissà quante altre volte. Per andare alle radici di questa
singolare forma di avversione, così pregnante da distorcere anche la
logica, la piscologia cognitiva ci fornisce buoni strumenti di
comprensione.
Secondo il professore e filosofo
canadese Martin
Gilbert, autore del
saggio Voir son steak comme un animal mort (Vedere la
propria bistecca come un animale morto) il sentimento conflittuale
che genera il vegano nella mente del carnivoro deriva dal concetto di
“dissonanza cognitiva”, una teoria elaborata alla fine degli anni
50 dal sociologo e psicologo americano Leon Festinger. Quasi tutte le
persone sono empatiche con gli animali, molti trovano deliziosi cani
e gattini e mai si sognerebbero di fare del male a una povera bestia,
trovarsi di fronte a qualcuno che rinuncia a mangiare la povera
bestia per motivi puramente etici crea il cortocircuito: «Amo gli
animali ma non mi faccio problemi a mangiarli: per uscire da questo
schema dissonante ci sono diverse opzioni: a) smetto di consumare
carne per essere coerente, b) minimizzo gli effetti negativi del mio
comportamento e mi convinco che gli animali non soffrono. Dicendogli
che per lui “non è vitale mangiare carne” il vegano mette
l’onnivoro sulla difensiva. La
vegephobia gli è necessaria per
confortarlo nell’idea che invece no, è impossibile essere vegano e
che di fronte a lui c’è un “religioso”, un “settario”, un
“hippy”, è un modo di proteggersi attaccando».
Il libro che forse più di tutti
“incarna” questa tendenza è Apologie du
carnivore, dell’etologo francese Dominique
Lestel, un saggio
uscito nel 2011 ai limiti del macchiettistico in cui l’autore
pretende che i carnivori «in realtà» sono molti più vicini agli
animali in quanto «mangiando carne prendono coscienza della loro
natura animale, mentre il rifiuto dei vegetariani è un modo di
negare, di sopprimere l’animalità della natura». Per Lestel,
inoltre, rifiutare la carne è sintomo di «una concezione
waltdysneiana del mondo». Ragionamenti degni del peggior Gorgia, ma
senza il sagace umorismo del sofista di Lentini.
“Dissonanza cognitiva” o
coda di paglia che sia, il conflitto tra carnivori e vegetariani non
nasce certo con il web, la rete amplifica e rimaneggia idee e
concetti che risalgono davvero agli albori della nostra civiltà.
Pensiamo alle
divergenze tra pitagorici e stoici nell’antica
Grecia, con i primi, vegetariani integrali, che rifiutavano di
partecipare ai sacrifici e i secondi che invece vedevano gli animali
come oggetti creati dagli dei per far piacere e nutrire gli uomini.
Nel terzo secolo dopo Cristo, il filosofo Porfirio rompe
il dogma della “separazione” naturale tra le specie e immagina
una società mista, una società interspecifica in cui l’animale
sia parte integrante della polis, della cittadinanza, andando oltre
le visioni bucoliche e primordiali di Ovidio che
nelle Metamorfosi rimpiange quell’età dell’oro pre-
sociale in cui uomini e bestie vivevano insieme in armonia.
Renan Larue,
professore di lettere all’Università di Montréal, autore di Le
végétarisme et ses ennemis (“Il vegetarianesimo e i suoi
nemici”), è convinto che il
culto spasmodico della carne, da lui definito “carnismo” si sia
strutturato intorno all’antropocentrismo di matrice cristiana,
che reclamare l’idea di esseri viventi “fatti e concepiti per
noi” suppone l’esistenza di un creatore, di un essere superiore
che avrebbe eletto l’uomo a creatura prediletto. Questo non vuol
dire che ogni volta che mangiamo un hamburger stiamo cauzionando il
nostro rapporto privilegiato con il divino ma che la religione
cristiana, l’unica tra i monoteismi a idolatrare un Dio
“incarnato”, l’unica a mettere in scena l’ingestione del
sangue e della carne di Cristo, non può rinnegare il suo Dna
carnivoro.
La Chiesa ha sempre difeso
questo principio accordando generalmente poca importanza alla vita
animale fino a quando non è stata contestata dagli illuministi anche
su questo punto: «Rifiutarsi di mangiare carne per motivi morali è
una scelta teologicamente pericolosa perché rompe il dogma
antropocentrico. I carnisti sottovalutano la
dimensione metafisica della loro posizione,
rivendicare con veemenza la centralità del consumare carne significa
accettare l’ordine immutabile delle cose stabilito dalla
religione», scrive Larue. Un pregiudizio molto meno
invasivo nella religione e nella cultura
ebraica; basti
pensare al mitzva (precetto da osservare) chiamato tsaar
baalei hayim, letteralmente “divieto di torturare un animale”
alla base di numerose interdizioni come quella di castrare una bestia
o di separare un vitello appena nato dalla madre, diversi rabbini
citano il mitzva per predicare il veganesimo come giusta
scelta spirituale e aderenza alla Legge.
Commento bambilu Google
RispondiEliminaUn Vegano è un Combattente...e chi desiste dalla lotta è un ebreo, o cristiano o mussulmano, ché loro hanno solo il padre. La madre è sconosciuta: mater ignota est est est, da cui deriva...peripatetica est est est.