domenica 22 febbraio 2015

I predatori del fiume perduto




Cacciati dalla valle del Danubio, come antichi barbari hanno trovato un’altra terra da depredare. Anzi, un altro fiume. Il Po. Sono i circa 200 bracconieri di origine romena che stanno distruggendo l’ecosistema del più grande fiume italiano in nome di un business illegale e feroce, condotto con metodi da Far West. E che lo Stato non riesce a fermare. L’allarme dei “predatori del Po” viene rilanciato oggi a Gonzaga, provincia di Mantova, a “Carpitaly”, convegno nazionale dedicato alla pesca sportiva. E dove quest’emergenza è al centro di uno dei dibattiti più attesi. «Parliamo di bracconaggio 2.0 – spiega Roberto Ripamonti, mito della pesca sportiva italiana e divulgatore televisivo – perché qui non siamo ai vecchi, romantici fenomeni di pesca illegale che non lasciavano tracce sugli ecosistemi».

 
Quello che succede ormai non solo nel delta del Po, ma in un raggio di 200 chilometri, fino a Reggio Emilia e Mantova, è uno sfruttamento tecnologico, una strage meccanizzata e militarizzata. I predatori sono divisi in otto squadre. Ognuno di essi ha un compito preciso. Stendono centinaia di metri di reti illegali, utilizzano storditori elettrici che uccidono sul colpo i pesci più piccoli e i microrganismi alla base della catena alimentare. E naturalmente, a differenza dei pescatori sportivi, le loro prede non le ributtano in acqua. Le caricano su grossi camion, destinazione Romania e Paesi limitrofi. In pochi anni hanno depredato migliaia di tonnellate di pesce. Controllando il territorio come un clan mafioso («si sono fatti vedere in qualche negozio della zona per far capire che comandano loro», racconta Ripamonti). Rivendendo tutto nei Balcani, con guadagni stratosferici: anche il mostruoso pesce siluro, che da noi non si può mangiare, in Romania vale 15 euro al chilo. Facendo i conti, si arriva a 400mila euro a settimana. 
 

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