Fonte: Il Secolo XIX
Cacciati dalla valle
del Danubio, come antichi barbari hanno trovato un’altra terra da
depredare. Anzi, un altro fiume. Il Po. Sono i circa 200 bracconieri
di origine romena che stanno distruggendo l’ecosistema del più grande
fiume italiano in nome di un business illegale e feroce, condotto con
metodi da Far West. E che lo Stato non riesce a fermare. L’allarme dei
“predatori del Po” viene rilanciato oggi a Gonzaga, provincia di
Mantova, a “Carpitaly”, convegno nazionale dedicato alla pesca
sportiva. E dove quest’emergenza è al centro di uno dei dibattiti
più attesi. «Parliamo di bracconaggio 2.0 – spiega Roberto
Ripamonti, mito della pesca sportiva italiana e divulgatore
televisivo – perché qui non siamo ai vecchi, romantici fenomeni di
pesca illegale che non lasciavano tracce sugli ecosistemi».
Quello che succede
ormai non solo nel delta del Po, ma in un raggio di 200 chilometri,
fino a Reggio Emilia e Mantova, è uno sfruttamento tecnologico, una
strage meccanizzata e militarizzata. I predatori sono divisi in otto
squadre. Ognuno di essi ha un compito preciso. Stendono centinaia di
metri di reti illegali, utilizzano storditori elettrici che uccidono
sul colpo i pesci più piccoli e i microrganismi alla base della
catena alimentare. E naturalmente, a differenza dei pescatori
sportivi, le loro prede non le ributtano in acqua. Le caricano su
grossi camion, destinazione Romania e Paesi limitrofi. In pochi anni hanno
depredato migliaia di tonnellate di pesce. Controllando il territorio
come un clan mafioso («si sono fatti vedere in qualche negozio della
zona per far capire che comandano loro», racconta Ripamonti).
Rivendendo tutto nei Balcani, con guadagni stratosferici: anche il
mostruoso pesce siluro, che da noi non si può mangiare, in Romania
vale 15 euro al chilo. Facendo i conti, si arriva a 400mila euro a
settimana.
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