Fonte: La Botanica
Due settimane fa stavo passeggiando vicino al paese in cui vivo, tra prati coperti di fiori di campo, chiacchierando al telefono con mia madre. Quando ho chiuso la telefonata nelle mie orecchie è esploso, senza preavviso, il canto della primavera, così fragoroso e repentino da farmi barcollare: trilli di uccelli, ronzio di bombi, frinire di cicale, stormire di fronde. Qui sull’Altipiano è così: la natura rifiuta di stare al suo posto. Di notte i grilli cantano tanto forte da farsi sentire attraverso i tripli vetri delle finestre. La pioggia si schianta sul tetto con fragore di grancassa. L’alternarsi di nuvole e sole detta umori, programmi e decisioni. L’inverno è tanto buio e freddo da congelarci in un torpore di tristezza. La terra che si spacca per la siccità mi stringe il cuore come se fosse un dolore. La frenesia della primavera si infila in ogni luogo e d’estate non c’è verso di dormire, non finché le lucciole fanno le loro strane danze nell’orto. Tutto questo mi succede forse perché sono una cittadina. Perché sono cresciuta in un appartamento a Bologna, tra i cinema e le vetrine, sempre in mezzo alla gente e spesso dentro una stanza. Per questo per me la scelta di andare a vivere in paese è un’esperienza pura di natura. Un'esperienza che per tante persone potrebbe essere semplice, e invece per me è profonda e radicale. Trasformativa come un temporale.
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