domenica 8 febbraio 2015

La barbarie va fermata senza appellarsi alle tradizioni



FONTE

Testo di Jacopo Storni

Accetta di parlare soltanto perché ha sofferto troppo. E non vuole che altre donne possano subire la stessa tortura. Di quel giorno ricorda tutto. “Avevo soltanto 7 anni, ma dentro di me rivivo ogni istante: il dolore, le urla, le lacrime, il sangue dappertutto”. Doveva essere un giorno di festa, almeno secondo la tradizione, invece quel giorno è diventato quello che ha trasformato la sua giovinezza in un inferno. 


Quel giorno Hamdi Abdurahman Ahmed, somala di 30 anni, ha subito la mutilazione dei genitali. “Ero al mio villaggio, Afogoye, nella stanza di mia madre. In casa mia c’erano i miei familiari, mia zia mi teneva ferme le spalle mentre un’anziana signora mi faceva l’anestesia”. Poi il taglio: “Hanno usato un piccolo rasoio affilato da entrambe le estremità”. Un taglio netto, rapido e lacerante. “Non riuscivo a smettere di urlare dal dolore e dallo spavento, ero soltanto una bambina”.
E poi la cucitura della vagina: “Hanno usato ago e filo”. E’ rimasta soltanto una piccola fessura, soltanto lo spazio per urinare e far fuoriuscire il sangue mestruale. La mutilazione genitale femminile è un rito che si sussegue, quasi immutato nel tempo. Il 6 febbraio è la giornata mondiale contro l’infibulazione, un rito macabro che viene praticato in 28 Paesi dell’Africa sub-sahariana, con punte del 97 per cento delle donne in Egitto, del 90 per cento in Mali, Eritrea, Somalia. Hamdi viene proprio dalla Somalia, da quella terra che ancora rimpiange ma di cui stenta a comprendere il senso di questa tradizione primitiva. “Ancora oggi mi domando perché, mi domando quale sia il senso di questa assurda pratica, ma non trovo una risposta”. Nessuna risposta, soltanto tanta sofferenza, fisica e psicologica. “Dai 7 ai 18 anni ho passato mesi terribili, tanti dolori e tanta paura”. 
 
Quei dolori iniziarono con il taglio del clitoride, e sono proseguiti per i giorni successivi: “Non sono riuscita ad urinare per un’intera settimana, avevo la pancia gonfissima, stavo per scoppiare e ho rischiato di morire”. Hamdi è sopravvissuta, ma non è riuscito a sopravvivere quello che sarebbe dovuto diventare suo figlio. “Avevo 17 anni quando sono rimasta incinta. La gravidanza è stata difficilissima e dolorosa, quando il bambino aveva 9 mesi e stava per nascere, è rimasto soffocato, è morto dentro di me”. Lei è viva per miracolo e oggi prova rabbia, soprattutto rabbia. E si batte per interrompere la tradizione dell’infibulazione. E’ arrivata in Italia sette anni fa con i barconi della speranza. L’adolescenza martoriata le ha dato un carattere d’acciaio. Oggi lavora come mediatrice culturale all’associazione Nosotras di Firenze. Ha sempre il sorriso sulle labbra ma quando volge lo sguardo alla sua infanzia, prova pena per tutte quelle donne che, oggi come ieri, subiscono la stessa umiliazione. “Una pratica – dice Hamdi – che purtroppo avviene anche in Italia. Non certo negli ospedali, ma clandestinamente nelle case di alcune donne africane”. E’ proprio sulle comunità africane in Italia che si concentra l’attenzione di Hamdi. Tanti incontri dove cerca di spiegare l’infondatezza di una tradizione apparentemente intoccabile. E poi gli incontri con medici e pediatri che lavorano nelle strutture sanitarie al fine di monitorare ed impedire la mutilazione e formare i dottori ai parti delle donne infibulate. “Dobbiamo dire basta a questa violenza” ripete Hamdi instancabilmente.

Nessun commento:

Posta un commento