venerdì 6 febbraio 2015

L'ISIS è una distrazione, in Ucraina fanno sul serio



Fonte: Byoblu

Bruxelles. «Questo è il più grande rafforzamento e riposizionamento della difesa collettiva della Nato fin dai tempi della Guerra Fredda». Non è la solita frase ad effetto, quella che giunge da Bruxelles. Dietro le parole di Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ci sono eventi e cifre che potrebbero entrare presto nei libri di storia. Mentre Nato, Ue e Usa si dividono sulla necessità di armare l’Ucraina, mentre Angela Merkel e François Hollande volano a Kiev per tentare un’ultima mediazione, e mentre Vladimir Putin proclama la mobilitazione dei suoi riservisti per due mesi («succede ogni anno», ma quest’anno è successo prima), la Nato annuncia che triplicherà o quasi le sue truppe nell’Est-Europa: quanto prima possibile, porterà da 13mila a 30mila i soldati del suo dispositivo di rapido impiego approvato soltanto nello scorso settembre.


E con loro, moltiplicherà i loro mezzi: carri armati, artiglieria pesante e leggera, aerei, elicotteri, navi, batterie lancia-missili, anche forze speciali di varie nazioni addestrate alla guerriglia. Formalmente, si spiega che questo servirà alla difesa complessiva dello «spazio euro-atlantico» da nord a sud, fino ai confini meridionali dove preme il terrorismo islamico. Ma intanto, sei centri di comando e controllo (non basi, si precisa) verranno istituiti quanto prima in altrettanti Paesi Nato dell’Est: Bulgaria, Estonia, Romania e poi Lettonia, Lituania, Polonia, tutta l’area del Baltico. 

Le forze che vi faranno capo, schierate di fronte ad analoghe forze russe, potranno e già possono entrare in azione nel giro di 48-72 ore: Stoltenberg non lo ricorda certo a caso, davanti ai ministri della Difesa della Nato riuniti a Bruxelles. Spiega che queste sviluppi – strategici, non tattici – si sono resi necessari perché in Ucraina «la violenza sta peggiorando e la crisi si sta aggravando» a causa del ruolo giocato da Mosca, «e questo è un momento molto critico per la sicurezza dell’Europa e del mondo».

Le truppe che ora la Nato ha deciso di triplicare sono la cintura di sicurezza che protegge i suoi Paesi-membri dall’incendio fiammeggiante nel cuore dell’Europa. Una parte di esse, la brigata multinazionale «Punta di lancia» forte di cinquemila unità, è nata a dicembre e avrebbe dovuto entrare a pieno regime solo nel 2016. Ma adesso, il suo addestramento è stato accelerato al massimo, secondo un modello operativo «provvisorio», e almeno in parte potrebbe muoversi anche subito, se la situazione precipitasse: se cioè uno dei Paesi Nato dovesse essere attaccato dall’esercito russo, o esplodere dall’interno per effetto di una rivolta separatista armata da Mosca, così come accaduto in Crimea.

«Punta di lancia» è formata in gran parte da unità fornite dalla Germania, dall’Olanda e dalla Norvegia, ma è aperta al contributo di altre nazioni, Italia compresa. In apparenza, la scacchiera su cui vaga l’incendio ha margini ben segnati: Mosca accusa Kiev di perseguitare la folta minoranza russa, la Nato accusa Mosca di sostenere I separatisti «con l’addestramento, le truppe e centinaia di armi avanzate, in spregio ai suoi impegni internazionali». Stoltenberg sa bene, e ripete sempre, che l’Ucraina non è membro dell’Alleanza, che un intervento militare in suo aiuto del suo governo sarebbe impossibile: ma ripete anche che la Nato «sosterrà la sovranità politica e geografica dell’Ucraina, che ha il diritto di proteggere se stessa».

Le armi, aggiunge, non sono della Nato ma dei singoli governi, «tocca a loro decidere». E qui, i pezzi sulla scacchiera si confondono: perché dagli Stati Uniti giunge l’appello ad armare Kiev, anche con armi offensive e letali. La prima risposta giunge da Mosca: la Russia considererebbe una minaccia per i propri vitali interessi l’invio di armi all’Ucraina.
Ma la seconda risposta giunge da alcuni comandanti militari della Nato, che mettono in guardia contro una situazione potenzialmente fuori controllo, e da vari Paesi membri dell’Alleanza, che continuano a invocare una soluzione politica: Italia, Olanda, Germania, Gran Bretagna, e altri. «Più armi in quella regione non ci avvicinerebbero a una soluzione – avverte il ministro tedesco della Difesa, Ursula von der Leyen – e non porrebbero fine alla sofferenza della popolazione». Ma l’incendio continua, e porta via tutte le voci.

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