Fonte: TPI
“Ho immaginato che le mie figlie
fossero lì a guardarmi e così ho preso la mia decisione. Qualcuno
può pensare che io sia un pazzo o un vigliacco, ma non mi importa.
Preferisco dare alla mia famiglia un pezzo di pane secco che pane
imbevuto del sangue degli innocenti”. È una sera tranquilla a Istanbul, le
strade sono piene di gente e ci sono militari ovunque. Anche l’uomo
siriano che ho di fronte a me lo era; ricopriva un incarico
importante all’interno delle mukhabarat jawiye di Aleppo, uno dei
più temibili rami dei Servizi segreti dell’aviazione siriani. Adesso è un disertore, un condannato a
morte che si nasconde in Turchia cercando una nuova vita per se
stesso e per la sua famiglia. Lo chiameremo Abdullah, un nome di
fantasia. Mentre parliamo si accende una
sigaretta dopo l’altra, è nervoso, si guarda intorno e mi confessa
che ha sempre la sensazione di essere seguito. Come tutti i siriani
porta il lutto nel cuore, ma porta anche il peso della paura. Paura
che non ci sia un posto al mondo dove possa sentirsi al sicuro dalla
vendetta del regime. Decide di farsi intervistare perché vuole che
qualcuno raccolga la sua denuncia, il suo testamento.
Perché parla di testamento? Teme che
possano trovarla anche qui?
“Le esecuzioni mirate contro i
siriani sono all’ordine del giorno. Giornalisti, attivisti per i
diritti umani e anche militari disertori sono stati raggiunti da
sicari e uccisi anche se erano in Turchia o in Libano. Io non ho
paura per me stesso, ma per le mie figlie e mia moglie”.
Che ruolo ricopriva all’interno dei
Servizi segreti?
“Il mio ruolo era di tipo
amministrativo. Nel sistema siriano dagli uffici delle mukhabarat
jawiye passano tutte le pratiche che riguardano la vita privata dei
cittadini, ma anche le questioni di stato. Dalle licenze per aprire
un negozio al rilascio dei passaporti, noi sapevamo vita, morte e
miracoli di tutti. Monitoravamo gli scambi di e-mail in rete e
avevamo pieno accesso alle intercettazioni telefoniche. Al nostro
comando lavorano anche molti civili, in particolare gli autisti dei
taxi e dei bus. Posso dire che il 90 per cento di loro è un nostro
informatore. Oltre ai civili, con noi collaborano anche forze
paramilitari, le cosiddette ‘lijian shabiye’ (in italiano
'coordinamenti popolari'), e i shabbiha, miliziani al soldo del
regime che eseguono, per 70mila lire mensili, ‘i lavori sporchi’
e che formalmente non esistono. Alla nostra divisione sono inoltre
affidati gli interrogatori, e la tortura fa parte dei metodi
convenzionali. Io mi sono sempre occupato del coordinamento delle
attività di sorveglianza”.
Cosa è cambiato con l’inizio della
rivolta anti-governativa?
“Quando sono cominciate le proteste,
ci hanno proposto incentivi per andare nelle strade a monitorare i
cortei, individuarne i promotori, arrestarli e ucciderli. Abbiamo
iniziato a organizzare retate nei campus universitari e posti di
blocco ovunque. Bastava un semplice sospetto per malmenare qualcuno,
costringerlo a pagare tangenti per essere rilasciato e arrivare
persino a togliergli la vita. Durante gli interrogatori, chiunque tra
di noi riuscisse a strappare una confessione per legami e atti di
terrorismo otteneva un compenso. Così il terrorismo è diventato un
business; più confessioni venivano estorte, più si veniva pagati e
si aveva la possibilità di salire di grado. Si ricorreva
sistematicamente alla tortura per costringere i malcapitati ad
ammettere colpe che non avevano. Anche donne e bambini sono spesso
stati costretti ad affermare di appartenere a cellule eversive e
criminali. Col tempo hanno iniziato a lavorare nella nostra divisione
anche militari russi e iraniani, che però avevano stanze blindate e
per noi inaccessibili”.
Anche lei partecipava a questi
interrogatori?
“Ho sempre cercato scuse per evitare
di entrare nelle stanze degli interrogatori o partecipare alle
retate. Quando le scuse non bastavano, pagavo un mio superiore per
farmi esonerare, finché la mia posizione non ha iniziato a destare
sospetti. Un giorno uno dei capi della divisione mi ha chiesto come
stavano mia moglie e le mie figlie e mi ha detto che sarebbe stato
spiacevole se fosse accaduto loro qualcosa. Era una minaccia a tutti
gli effetti. Ho capito che dovevo agire e ho accettato di prendere
parte a una hafla (letteralmente festa, ndr), cioè al pestaggio a
sangue di un nuovo detenuto. Era un giovane di 18 anni. Lo abbiamo
riportato in cella ormai esanime. Le sue urla non potrò mai
dimenticarle, né quegli schizzi di sangue che arrivavano ovunque. Io
non l’ho picchiato, ma gli tenevo ferme le mani e lo insultavo per
sembrare credibile. I colleghi sembravano iene assatanate”.
Quali erano le condizioni di vita dei
detenuti?
“Terribili, disumane. Chiunque
finisse nelle mani delle mukhabarat veniva dato per disperso o per
morto. Celle di 1,80 metri quadri per dodici detenuti, cibo e acqua
razionati; non c’erano cure mediche, né luce. Le donne e anche
alcuni ragazzi subivano lo stupro sistematicamente, anche attraverso
l’inserimento nelle parti intime di corpi contundenti. Se uno di
noi voleva compiacere il suo superiore gli portava le detenute più
belle, giovani e possibilmente vergini perché ‘le inaugurasse’
lui. Poi venivano riportate in cella, ormai alla mercé di tutti. Un
mio superiore mi ha costretto a scendere nelle segrete ogni mattina
per fare rapporto su quelli che chiamava ‘i cani schiattati’, il
modo atroce con cui venivano definite le vittime che morivano a
seguito delle torture e delle privazioni. Spesso i corpi restavano
per giorni nelle celle e si decomponevano di fronte agli altri
detenuti; altre volte finivano nelle fosse comuni, o venivano
lasciati lungo l’autostrada dagli shabbiha. Raramente rimandavamo
le salme alle famiglie, e quando lo facevamo era solo dopo aver
sigillato le bare col piombo per impedire che venissero aperte e aver
compilato falsi certificati medici che indicavano morte per infarto o
ictus. Nessun detenuto veniva chiamato per nome, erano tutti numerati
come bestie”.
Cosa l’ha spinta a lasciare il suo
incarico?
“Il primo giorno in cui ho
partecipato a un pestaggio è morta per sempre una parte della mia
umanità. Ho immaginato che le mie figlie mi stessero guardando e
così ho preso la decisione di fuggire, cercando di non farmi
scoprire per non finire io stesso in cella, o con una raffica di
kalashnikov sulla schiena, come era accaduto ad altri colleghi. Era
difficile organizzare una fuga, ma un giorno, mentre ero a lavoro,
sono stato avvisato da un collega che la mia casa era crollata sotto
un bombardamento. Ho sentito che era una punizione divina per non
aver trovato il coraggio di difendere quelle vittime. Sotto le
macerie del palazzo c’era mia moglie, le bambine erano dai nonni. È
rimasta semi paralizzata, la sua schiena completamente ustionata.
Sono riuscito a ottenere alcuni permessi per starle vicino e
prendermi cura di lei, potendo così allontanarmi dal lavoro senza
destare sospetti. In questo modo ho organizzato la nostra fuga
all'estero. La cosa peggiore è che il velivolo che ha bombardato la
mia casa è partito dalla nostra stessa divisione. Io ero complice di
quella violenza”.
@Gentili & attenti LETTORI,
RispondiEliminaquesti "dolorosi & tragici" racconti SONO simili a quelli dei "nazisti" della IIa guerra Mondiale o dell' America Latina dei COLONNELLI, es. dell' ARGENTINA o del CILE=DESAPARECIDOS "ispirati & finanziati" dal POTERE "globale";
le "GUERRE" TUTTE inducono al peggiore "degrado" UMANO le VITTIME & i "CARNEFICI" si confondono nei TEMPI & nei LUOGHI, in particolare nelle GUERRE CIVILI con i Fratelli contro Fratelli e questo NON solo in SIRIA !!!!
MANDI
SDEI
Condivido al 100 % ciò che dici.
EliminaMetti addosso a un uomo una divisa, dagli in mano la vita di un altro uomo e con buona probabilità farai di lui un carnefice.