Testo di Emma Mancini
Bambini
prigionieri in Palestina: le riforme israeliane di Tel Aviv accolgono tre delle 38
raccomandazioni promosse dall'Unicef, ma restano "maltrattamenti diffusi,
sistematici e istituzionalizzati".
Gerusalemme - 21 ottobre
2013. Ieri la polizia israeliana ha arrestato due adolescenti
israeliane, sospettate di aver scritto graffiti razzisti nel quartiere
palestinese di Sheikh Jarrah. Il portavoce della polizia, Mickey Rosenfeld, ha
fatto sapere che le due giovani, 16 e 15 anni, sono già finite davanti al
giudice. Una notizia quasi insolita: generalmente a finire in manette sono i
minori palestinesi. All'11 ottobre, secondo i dati forniti dal Palestinian
Prisoners' Club, sono 149 i bambini palestinesi detenuti in un carcere
israeliano. In ogni caso, arrestate o meno, le due giovani israeliane iniziano
un percorso ben diverso da quello dei Territori: a giudicarle sarà un tribunale
civile, e non militare come accade per i prigionieri minorenni palestinesi.
Solo una delle tante differenze (e discriminazioni) tra le due comunità, ben
spiegate dal rapporto di Visualizing Palestine dello scorso anno. Prima di
tutto, i tempi: un minore israeliano attende al massimo 12 ore prima di vedere
un giudice, uno palestinese 4 giorni. E prima di vedere un avvocato?
L'israeliano ha diritto a parlare con il suo legale entro due giorni
dall'arresto, il palestinese entro 90. L'israeliano resta dietro le sbarre
senza un'accusa formale al massimo 40 giorni, contro i 188 del palestinese.
Tempi dilatati che arrivano all'assurdità di un'attesa di due anni di
detenzione prima del processo se l'imputato è un minore palestinese; se è
israeliano il tempo di attesa si riduce a sei mesi. A cambiare è anche lo
status stesso del detenuto: un bambino israeliano sotto i 14 anni non può
finire in prigione per la legge israeliana, mentre uno palestinese è chiuso
dietro le sbarre a partire dai 12 anni. E in caso di accusa, il 90% dei bambini
palestinesi viene condannato, contro il 6,5% degli imputati israeliani.
Differenze abissali che violano palesemente il diritto internazionale e le
convenzioni per i diritti dei bambini, tanto da spingere l'UNICEF a criticare
duramente le autorità israeliane per il trattamento dei prigionieri minorenni
dei Territori Occupati.
A seguito del rapporto presentato dall'agenzia Onu lo
scorso marzo e delle 38 raccomandazioni mosse a Tel Aviv, qualcosa sembra muoversi.
L'esercito israeliano ha annunciato nei giorni scorsi delle riforme nei metodi
di arresto e detenzione di minori palestinesi. Accolte tre delle 38
raccomandazioni: l'interruzione degli arresti notturni, la riduzione del tempo
di detenzione prima di vedere un giudice (24 ore per i bambini di 12-13 anni e
due giorni per i bambini di 14-15 anni) e la separazione delle udienze dei
bambini da quelle degli adulti. Nulla sembra muoversi, invece, sul piano del
trattamento dentro le carceri. Le principali preoccupazioni espresse
dall'UNICEF riguardavano "maltrattamenti molto diffusi, sistematici e
istituzionalizzati", ovvero torture psicologiche e fisiche, divieto di
ricevere un'educazione adeguata, ritardi nelle visite dei genitori. La storia
di Abed, pubblicata da Nena News lo scorso aprile, è un esempio della vita di
un minore palestinese dietro le sbarre di una prigione israeliana. E come ci aveva spiegato il direttore dell'associazione palestinese Defence for
Children International, Rifat Kassis, "la strategia israeliana era
racchiusa in uno slogan: 'Le vecchie generazioni moriranno, le nuove
dimenticheranno'. Questo non è avvenuto. Le nuove generazioni sono più radicali
e informate delle precedenti. Conoscono la loro storia, la storia delle loro
famiglie e quella della Palestina. Per questo ora l'obiettivo è cambiato:
spezzare la resistenza dei giovani arrestandoli e traumatizzandoli per renderli
innocui".
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