mercoledì 23 ottobre 2013

Due pesi e due magistrature

 

Testo di Emma Mancini

Bambini prigionieri in Palestina: le riforme israeliane di Tel Aviv accolgono tre delle 38 raccomandazioni promosse dall'Unicef, ma restano "maltrattamenti diffusi, sistematici e istituzionalizzati".
Gerusalemme - 21 ottobre 2013. Ieri la polizia israeliana ha arrestato due adolescenti israeliane, sospettate di aver scritto graffiti razzisti nel quartiere palestinese di Sheikh Jarrah. Il portavoce della polizia, Mickey Rosenfeld, ha fatto sapere che le due giovani, 16 e 15 anni, sono già finite davanti al giudice. Una notizia quasi insolita: generalmente a finire in manette sono i minori palestinesi. All'11 ottobre, secondo i dati forniti dal Palestinian Prisoners' Club, sono 149 i bambini palestinesi detenuti in un carcere israeliano. In ogni caso, arrestate o meno, le due giovani israeliane iniziano un percorso ben diverso da quello dei Territori: a giudicarle sarà un tribunale civile, e non militare come accade per i prigionieri minorenni palestinesi. 


Solo una delle tante differenze (e discriminazioni) tra le due comunità, ben spiegate dal rapporto di Visualizing Palestine dello scorso anno. Prima di tutto, i tempi: un minore israeliano attende al massimo 12 ore prima di vedere un giudice, uno palestinese 4 giorni. E prima di vedere un avvocato? L'israeliano ha diritto a parlare con il suo legale entro due giorni dall'arresto, il palestinese entro 90. L'israeliano resta dietro le sbarre senza un'accusa formale al massimo 40 giorni, contro i 188 del palestinese. Tempi dilatati che arrivano all'assurdità di un'attesa di due anni di detenzione prima del processo se l'imputato è un minore palestinese; se è israeliano il tempo di attesa si riduce a sei mesi. A cambiare è anche lo status stesso del detenuto: un bambino israeliano sotto i 14 anni non può finire in prigione per la legge israeliana, mentre uno palestinese è chiuso dietro le sbarre a partire dai 12 anni. E in caso di accusa, il 90% dei bambini palestinesi viene condannato, contro il 6,5% degli imputati israeliani. Differenze abissali che violano palesemente il diritto internazionale e le convenzioni per i diritti dei bambini, tanto da spingere l'UNICEF a criticare duramente le autorità israeliane per il trattamento dei prigionieri minorenni dei Territori Occupati. 

A seguito del rapporto presentato dall'agenzia Onu lo scorso marzo e delle 38 raccomandazioni mosse a Tel Aviv, qualcosa sembra muoversi. L'esercito israeliano ha annunciato nei giorni scorsi delle riforme nei metodi di arresto e detenzione di minori palestinesi. Accolte tre delle 38 raccomandazioni: l'interruzione degli arresti notturni, la riduzione del tempo di detenzione prima di vedere un giudice (24 ore per i bambini di 12-13 anni e due giorni per i bambini di 14-15 anni) e la separazione delle udienze dei bambini da quelle degli adulti. Nulla sembra muoversi, invece, sul piano del trattamento dentro le carceri. Le principali preoccupazioni espresse dall'UNICEF riguardavano "maltrattamenti molto diffusi, sistematici e istituzionalizzati", ovvero torture psicologiche e fisiche, divieto di ricevere un'educazione adeguata, ritardi nelle visite dei genitori. La storia di Abed, pubblicata da Nena News lo scorso aprile, è un esempio della vita di un minore palestinese dietro le sbarre di una prigione israeliana. E come ci aveva spiegato il direttore dell'associazione palestinese Defence for Children International, Rifat Kassis, "la strategia israeliana era racchiusa in uno slogan: 'Le vecchie generazioni moriranno, le nuove dimenticheranno'. Questo non è avvenuto. Le nuove generazioni sono più radicali e informate delle precedenti. Conoscono la loro storia, la storia delle loro famiglie e quella della Palestina. Per questo ora l'obiettivo è cambiato: spezzare la resistenza dei giovani arrestandoli e traumatizzandoli per renderli innocui".

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