giovedì 10 luglio 2014

Il padiglione di giada



Se noi siamo riusciti a costruire interi colonnati di marmo, in varie parti del mondo occidentale, non vedo perché in Cina non siano stati capaci di costruire gazebo con le colonne di giada, che per quanto mi consti è un minerale semiprezioso. D’altra parte, io non sono mai stato in Cina e laggiù, della verde giada, potrebbero esserci intere miniere come quelle marmoree di Massa Carrara. Fatto sta che l’albergo Pavillon de jade, a Tanà, si trova a Behoririka, cioè nel quartiere cinese e la struttura originaria è stata inaugurata nel 1983 alla presenza di un ministro dell’allora presidente Didier Ratsiraka. Io vi andai una prima volta nel 2006, su invito di Francesco Spizzirri di cui ho già pubblicato sia articoli, sia soprattutto bellissime foto. Al momento si pagano 10 euro a notte, con bagno in camera e acqua calda. La presenza del ristorante interno, chiuso la domenica, fa sì che la sera non sia necessario uscire a cercarsi da mangiare, dato che con il calare del sole la città si fa insicura. 


Il padrone cinese lascia che le makorele si fermino a lungo a chiacchierare, nel pomeriggio e la sera, sempre allo stesso tavolo del ristorante, in attesa di clienti. Io non vi ho mai approfittato, non per motivi morali, ma perché dal 2007 in poi ho sempre fatto coppia fissa con Tina. La quale, a pezzi e bocconi, riesce a raccontarmi cose e avvenimenti del suo paese. Per esempio di come quel Ratsiraka non si fece scrupoli a bombardare un ponte che portava a Tamatave, per impedire a Marc Ravalomanana, che nel 2000 era sindaco della capitale, di farvi transitare le truppe con le quali intendeva spodestarlo. La lotta per il potere tra il presidente e l’aspirante tale, fatta a suon di bombardamenti, mi ricorda la guerra fra gli Asura e i Deva, a bordo dei loro Vimana, incuranti della popolazione “civile”. In entrambi i casi, India e Madagascar, sembra che ai contendenti non interessi nulla delle vite dei terrestri, con un vasto territorio del Madagascar tagliato fuori dalle vie di comunicazione e migliaia di indiani uccisi nelle antiche guerre mitologiche. 

Tornando al nostro Pavillon, ne sono stato sempre ospite tutte le volte che ho transitato per Tanà (e questo ormai è il mio decimo viaggio), per abitudine ma anche per il buon rapporto qualità-prezzo. Non vi s’incontrano molti italiani, ma principalmente creoli della Reunion e gli immancabili francesi. Solo una volta v’incontrai un italiano che era gestore del “Parrocchetto blu” di Tamatave, ma ne taccio il nome perché appartiene a quella schiera di disperati europei che vanno in Madagascar a continuare i disastri che facevano in patria. C’è stato anche chi, francese, uccise la moglie belga sotto l’effetto della droga, ma questo è successo a Tulear anni fa e l’italiano che incontrai al Pavillon semplicemente era dedito al bere in maniera smodata. Tanto che una italiana residente a Tanà, Emanuela Salani, veniva chiamata per andare a recuperarlo nei fossi dove il soggetto era solito rotolare in stato di coma etilico. La signora citata lo faceva per spirito di patriottismo, ma non ne era orgogliosa.

Davanti all’albergo ultimamente viene a dormire una barbona di 62 anni di nome Titiny. Ho incaricato Tina di intervistarla. La mattina si alza e se ne va in cerca di cibo, ma la sera ritorna a stendersi sotto la sporgenza dell’ingresso. Evidentemente, da altri posti l’hanno cacciata per non infastidire, anche con la sua sola presenza, i clienti. Titiny è vedova da 25 anni e ha due figli grandi che l’aiutano come possono, ma c’è stato anche un periodo bello nella sua vita, quando stava con un francese e questo spiega perché ne parli perfettamente la lingua. Poi il francese non si è più fatto vedere e lei piano piano è scivolata nella miseria più nera, aggiungendosi alla già cospicua schiera dei discendenti di schiavi che vivono sui marciapiedi. Dopo averla fotografata le ho dato una piccola mancia, come faccio sempre in questi casi. Dopo di che, Tina mi ha invitato a salire in camera, ché ad ascoltare la triste storia di Titiny sarebbe rimasta lei. Mentre raccontava le sue disgrazie, la vecchia piangeva, ma io non ero più lì a commuovermi.

Normalmente, i barboni soffrono con dignità, ma lei non si sente tale. Il padrone cinese del Pavillon per ora la tollera, anche perché Titiny si presenta quando il portone d’ingresso dell’hotel è blindato, dopo le otto di sera e non c’è molto movimento di clienti. Di solito, sono i musulmani che per regola religiosa devono fare la carità e anche nei pressi dell’albergo ho visto il venerdì file di indigenti aspettare il turno per ricevere cibo da loro. Islamici come la nostra Caritas. In onore al nome, il padrone del Padiglione di Giada avrebbe potuto incastonare qualche esemplare del prezioso minerale e invece c’è qualche campione di altro genere sulle mensole della reception, per altro poco illuminata. Non è un ingresso eccessivamente accogliente, ma per me va bene così.

Nessun commento:

Posta un commento