giovedì 31 luglio 2014

Morire in Madagascar


Fu il primo a dare inizio alle danze, la sera precedente al mio matrimonio. Eravamo nel quartiere di Analatsimavo, dove vive la famiglia di Tina e la musica andava a tutto volume, come sempre in Madagascar. Avevo già svolto il mio dovere di pretendente alla mano di Tina, portando due bottiglie di rhum al padre. E meno male che non ho dovuto portare in dote animali vivi! Le bibite e gli snack per bimbi e signore già circolavano e Justin, conosciuto anche con il suo nome malgascio di Bohaboha, cominciò per primo a danzare, per quel tanto che l’artrite gli permetteva. Poi cominciarono le donne, come si vede nella foto successiva. Justin è morto il 5 luglio scorso, quando sono partito dall’Italia, ed è stata la dissenteria a ucciderlo. Aveva 80 anni, età ragguardevole se si pensa che l’età media in queste contrade si assesta sui sessant’anni. Mio padre, per fare un paragone, è morto a 82 anni in un letto d’ospedale, da solo, per arresto cardiaco.


Spesso però i telegiornali malgasci riportano casi di morti violente. E’ il caso di un fotografo di nome Fenoasy che, venuto a disputa per l’ennesima volta con il vicino di nome Masindambo, per questioni di terreni confinanti, perse il lume della ragione, afferrò la punta di ferro di un lefo, una lancia tradizionale del sud del Madagascar, e la conficcò nella tempia dell’interlocutore, che morì sul colpo. Non contento, sull’onda della furia omicida, gliela conficcò anche nel cuore. Dopo di che, invece di darsi alla fuga come sarebbe stato naturale, sconvolto per ciò che aveva fatto, andò a costituirsi alla polizia e gli anni di prigione, che nessuno gli potrà togliere, saranno tanti.

Tutto ciò accedeva un paio di settimane fa a Tulear, ma c’è un seguito piuttosto strano. La vittima aveva un nipote di nome Reaviky, di professione commerciante di bestiame. Quando costui seppe della tragica morte dello zio, convocò la famiglia dicendo che avrebbero dovuto recarsi al commissariato per manifestare il loro odio verso l’assassino. Così si usa fare in Madagascar, dove evidentemente il sentimento della famiglia è molto vivo. Si tratta sempre di famiglie molto allargate, che agiscono insieme quando c’è da far valere dei diritti o per altre forme di rimostranza verso terzi.

Reaviky non riuscì a portare a termine il suo compito di capofamiglia e fu colpito da quello che secondo le descrizioni fattemi da Tina fu un ictus. Improvvisamente, all’età di 36 anni, perse la vista, non riuscì più a parlare e gli unici suoni che uscivano dalla sua bocca, mentre era ricoverato in ospedale, erano una specie di muggito di zebù, alquanto sgradevole ad udirsi per orecchi superstiziosi. D’altra parte, di professione commerciava proprio zebù. Morì dopo due giorni. Tina e altre 50 persone, lo scorso 28 luglio, sono rimaste quattro ore sedute fuori dalla capanna, per poi dirigersi a piedi, dietro il carretto su cui era stata posta la bara, verso il porto di Tulear, dove il feretro è stato caricato su un Bac, un traghetto, diretto a Itampolo. Anche il padre adottivo di Tina ha accompagnato il giovane parente nel suo ultimo viaggio.

A me non è stato possibile fotografare il cadavere, anche se non avrebbero avuto nulla in contrario se fotografavo la bara mentre usciva dalla capanna. Il cadavere rimarrà due mesi in una stanza della capanna avita, nel villaggio dei genitori, e se qualcuno nelle vicinanze dovesse pronunciare la parola maimbo, puzza, i familiari offesi potrebbero chiedere uno o più zebù come risarcimento per la mancanza di riguardo. Si chiama fady, tabù, e in Madagascar ce ne sono tantissimi e diversissimi. Anche scatarrare vicino a una casa in cui c’è un cadavere è fady, ma nel mio caso non corro nessun rischio perché non scatarro mai. Non è mia abitudine. Un altro particolare interessante è che se il morto è anziano, diciamo sopra i 40 anni, il corteo funebre è allegro, con canti e balli dei partecipanti diretti verso il cimitero. Se è un giovane come nel caso in oggetto, ci si limita a cantare i canti di chiesa. Se è un bambino, si rimane in silenzio. Per lo meno, i tanalana fanno così, poi magari le altre etnie avranno usi differenti.

Ancora non ho assistito a un vero e proprio funerale, anche perché non vorrei incorrere nell’infrazione di qualche tabù, ma siccome la morte da queste parti è sempre presente, sperando non si tratti della mia, ho il sospetto che mi si offrirà qualche altra occasione.

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