lunedì 7 luglio 2014

Fragola e mandarino


Il giorno prima della mia partenza, l’amico Franco, che mi ha accompagnato al Marco Polo di Venezia alle cinque del mattino, mi ha chiesto a quali rinunce alimentari va incontro un vegano in Madagascar. E questo è un problema che qualsiasi persona intenzionata a mantenere uno stile di vita cruelty free si pone in caso di spostamenti sulla superficie terrestre. Gli ho risposto che in Madagascar cresce tutto ciò che c’è da noi, ad eccezione forse degli asparagi, con in più deliziosa frutta esotica (per noi) a prezzi bassissimi. Gli ho portato l’esempio di Tulear dove un giorno ho visto in vendita alcune ceste di noci, provenienti direttamente da Fianarantsoa, cioè dagli haut plateau, gli altipiani. Anche le mele, che a Tulear, città della costa sud ovest, crescono piccole e stentate, vengono dagli altipiani e sono grandi come le nostre. Il 6 luglio, cioè all’inizio dell’inverno australe, ho trovato in vendita nella capitale belle fragole scarlatte, invitanti e voluttuose e ciò mi è parso strano giacché, pur non mangiando mai fragole a causa delle grandi quantità di pesticidi usati per coltivarle, mi sembra che siano frutti estivi. A meno che non siano coltivate in serra. L’unica cosa che sono venuto a sapere tramite la mia interprete Tina è che vengono da Ambatofotsy, una zona nei dintorni di Antananarivo e che il loro prezzo è di mille ariary a vaschetta, trenta centesimi di euro.


Anche i mandarini, dalla scorza rugosa e più grandi delle nostre clementine, erano in vendita a Tana, abbreviativo della capitale, ma questo almeno coincide con la stagione invernale, come da noi. Vengono da Ambohijafy e costano 2.000 ariary al chilo, sessanta centesimi di euro. La frutta, come qualsiasi altra merce non troppo pesante, viene venduta dagli ambulanti, bambini, donne ma anche uomini, oppure ai mercati rionali fissi, immagino per motivi fiscali poiché vendendola per strada non si pagano le tasse allo Stato per occupazione di suolo pubblico. Per il turista non abituato, l’impatto può essere fastidioso, perché camminando  un po’ tra la merce adagiata sul marciapiede e un po’ sulla carreggiata, col rischio di essere investiti e badando a schivare gli altri passanti, venire avvicinati da decine di venditori quasi ad ogni passo, che offrono sempre gli stessi oggetti, significa caricarsi di stress nocivo, da dover smaltire poi con lunghe ore di ozio sulla spiaggia sotto le palme. A meno che anche lì non si venga continuamente raggiunti da venditrici di pareo e souvenirs assortiti. E’ un po’ come essere in spiaggia a Jesolo, con i “Vucumprà” all’assalto dei bagnanti e se non si è trovata una soluzione nella cittadina balneare veneta, difficilmente se ne troverà una ad Antananarivo, dove vige un’economia di sussistenza. Il mondo intanto va avanti così, con milioni di formiche umane che “spingono la mollichina”, ammutta muddica, mentre i vegani beati sotto le palme si rimpinzano di litchi, manghi e papaye.


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