Il
giorno prima della mia partenza, l’amico Franco, che mi ha accompagnato al
Marco Polo di Venezia alle cinque del mattino, mi ha chiesto a quali rinunce
alimentari va incontro un vegano in Madagascar. E questo è un problema che
qualsiasi persona intenzionata a mantenere uno stile di vita cruelty free si pone in caso di spostamenti sulla superficie
terrestre. Gli ho risposto che in Madagascar cresce tutto ciò che c’è da noi,
ad eccezione forse degli asparagi, con in più deliziosa frutta esotica (per
noi) a prezzi bassissimi. Gli ho portato l’esempio di Tulear dove un giorno ho
visto in vendita alcune ceste di noci, provenienti direttamente da
Fianarantsoa, cioè dagli haut plateau, gli altipiani. Anche le mele, che a Tulear, città della costa sud
ovest, crescono piccole e stentate, vengono dagli altipiani e sono grandi come
le nostre. Il 6 luglio, cioè all’inizio dell’inverno australe, ho trovato in
vendita nella capitale belle fragole scarlatte, invitanti e voluttuose e ciò mi
è parso strano giacché, pur non mangiando mai fragole a causa delle grandi
quantità di pesticidi usati per coltivarle, mi sembra che siano frutti estivi.
A meno che non siano coltivate in serra. L’unica cosa che sono venuto a sapere
tramite la mia interprete Tina è che vengono da Ambatofotsy, una zona nei
dintorni di Antananarivo e che il loro prezzo è di mille ariary a vaschetta,
trenta centesimi di euro.
Anche
i mandarini, dalla scorza rugosa e più grandi delle nostre clementine, erano in
vendita a Tana, abbreviativo della capitale, ma questo almeno coincide con la
stagione invernale, come da noi. Vengono da Ambohijafy e costano 2.000 ariary
al chilo, sessanta centesimi di euro. La frutta, come qualsiasi altra merce non
troppo pesante, viene venduta dagli ambulanti, bambini, donne ma anche uomini,
oppure ai mercati rionali fissi, immagino per motivi fiscali poiché vendendola
per strada non si pagano le tasse allo Stato per occupazione di suolo pubblico.
Per il turista non abituato, l’impatto può essere fastidioso, perché
camminando un po’ tra la merce
adagiata sul marciapiede e un po’ sulla carreggiata, col rischio di essere
investiti e badando a schivare gli altri passanti, venire avvicinati da decine
di venditori quasi ad ogni passo, che offrono sempre gli stessi oggetti,
significa caricarsi di stress nocivo, da dover smaltire poi con lunghe ore di
ozio sulla spiaggia sotto le palme. A meno che anche lì non si venga
continuamente raggiunti da venditrici di pareo e souvenirs assortiti. E’ un po’ come essere in spiaggia a
Jesolo, con i “Vucumprà” all’assalto dei bagnanti e se non si è trovata una
soluzione nella cittadina balneare veneta, difficilmente se ne troverà una ad
Antananarivo, dove vige un’economia di sussistenza. Il mondo intanto va avanti
così, con milioni di formiche umane che “spingono la mollichina”, ammutta
muddica, mentre i vegani beati sotto
le palme si rimpinzano di litchi, manghi e papaye.
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