Uscendo dal cortile di casa il 22 luglio, nel quartiere di Ambolanahomby, ci
siamo imbattuti in una bambina piangente con ferite sanguinanti sul volto,
accompagnata da sua sorella pure piangente. Tina si è messa a gridare dicendo
che era stata morsa da un alika masiaka, un cane cattivo. Un brutto presentimento mi ha assalito. Infatti, il
giorno dopo il cane è stato ucciso dal suo padrone. Negli zoo sono spesso le
madri di alcune specie di mammiferi a uccidere i propri figli rendendosi conto
istintivamente che, lasciati vivere, andrebbero incontro a una vita di
prigionia. Nella savana, quando un maschio di leone vuole usurpare il posto di
un altro maschio, nell’harem di cui sono costituiti i nuclei familiari, la
prima cosa che fa dopo aver scacciato il perdente, è di uccidere i suoi figli,
in modo che alla leonessa ritornino subito i calori. E’ una guerra fra geni ed
è forse uno dei pochi casi in natura di assassinio intraspecifico, dopo l’uomo
che sotto tale aspetto è insuperabile.
Le
due storie di minori che vado a raccontarvi riguardano un paio di fratellini
malgasci ripudiati dalla loro madre e un bambino meticcio, figlio di un
italiano e di una ragazza del posto, che purtroppo ha trovato la morte in
circostanze tragiche e che ha quasi fatto impazzire il nostro connazionale.
La madre snaturata del primo caso è una delle tante cugine di Tina, si chiama
Korety e io l’ho conosciuta a Besely Nord nel dicembre scorso. Ho conosciuto
anche il marito 23enne di lei, Toetra, da cui si è separata, e quando l’ho
conosciuto era ubriaco fradicio, stato in cui, come mi è stato detto, si
trovava quotidianamente. Lui avrebbe voluto tornare con la prima moglie, benché
ormai già vivesse con la seconda, ma Korety non voleva più saperne di
riprenderselo. Questi antefatti vanno conosciuti per inquadrare la situazione,
senza però arrivare a giustificare il comportamento della madre. Toetra, nei
giorni in cui mi trovavo a Besely Nord, mentre era in stato di ebbrezza colpì
con una lancia, un lefo, la porta
della capanna di Korety, minacciando di uccidere lei e i suoi genitori, facendo
quella che noi chiamiamo una “piazzata”, finché un adulto della sua famiglia
non l’ha trascinato via a forza. Dei due fratellini, il più grande di 5 anni,
di nome Odilon, se l’è cavata abbastanza bene, ma quello di 2, Sammy,
cominciava ad avere occhi e guance infossati e a diventare simile a un piccolo
scheletro. La madre, semplicemente, lo aveva abbandonato a se stesso.
Per fortuna, sono intervenuti i familiari che li hanno portati entrambi a
Tulear, nel quartiere di Analatsimavo, consegnandoli alla madre di lei.
Tuttavia, quando sono venuti in visita insieme a una zia di Tina, mentre erano
in corso le operazioni di pulizia della nostra attuale residenza, la loro
accompagnatrice non si è fatta scrupolo di dare a Odilon un bicchiere di birra,
dicendo che tanto è abituato. Il piccolo ne ha dato un sorso anche al
fratellino di 2 anni. Ho fatto notare la cosa, disdicevole dal nostro punto di
vista di occidentali, ma sia Tina che sua zia di nome Noro, fra l’altro sposata
a un tedesco, hanno trovato che le mie proteste fossero eccessive e si sono
messe a ridere della mia ingenuità. Anch’io forse, come Francesco, dovrei smettere
di giudicare. Il piccolo si è ripreso, grazie alle cure della nonna, ma nel
caso di Odilon, che ha avuto in dono un pallone portato dall’Italia, si deve
dire: “Tale il padre, tale il figlio”, ma lo si deve dire amaramente.
Il secondo caso è molto triste e del nostro connazionale residente a Tulear
dirò solo l’iniziale del nome, anche perché il cognome non l’ho mai saputo. T.
l’anno scorso divenne padre felice. La sua compagna malgascia gli diede un bel
maschietto e per lui, giovane rampollo di una famiglia bene di Cremona, era il
primo figlio. Com’è successo tante volte anche a me in relazione a Tina, a
causa della nostra mentalità molto differente da quella degli indigeni, T.
litigò con la sua compagna una volta di più e più aspramente, tanto che ella se
ne andò portandosi dietro la creatura. Per una negligenza tipica di madri
inesperte, il piccolo fu lasciato in casa da solo in compagnia di un bambino di
otto anni a fargli da sorvegliante. La classica fatale pentola d’acqua bollente
fece il resto. Le ustioni non furono mortali ma richiesero l’intervento dei
medici della clinica San Luca, nel quartiere di Sanfily.
Il
bambino sopravvisse alle scottature, ma i medici dissero ai genitori affranti
che aveva bisogno di continua idratazione, ovvero di flebo, altrimenti sarebbe
morto. T. si oppose e promise che a idratare il figlio ci avrebbe pensato lui.
La madre non disse nulla. Una volta portato a casa l’adorato figliolo, dopo
poche ore, forse per imperizia di T. o perché così aveva deciso il destino
crudele, il piccolo morì. T. andò fuori di testa. I familiari della madre, che
volevano seppellire il corpicino, furono respinti in malo modo da T. il quale,
avendoli trovati in casa a piangere secondo gli usi locali, ed essendo entrati
senza il suo permesso, s’infuriò e trascinò per i capelli alcune ragazze fin
sulla strada. I giornali e la televisione, che non perdono occasione di
umiliare gli ex colonizzatori (e tutti i bianchi per loro lo sono), dissero che
il vazaha era impazzito dal
dolore. Il che, forse involontariamente da parte dei mass-media locali, gli
rende onore perché dimostra quanto bene T. volesse a suo figlio. C’è chi disse
che lo aveva messo in congelatore, altri che lo avesse messo in frigo e che lo
baciasse continuamente piangendo disperato.
Fatto
sta, quando alla fine un medico legale, insieme alla polizia, fece irruzione in
casa, trovò il cadaverino, che già da un pezzo aveva cominciato a decomporsi,
sul tavolo da cucina. T. fece un giorno di carcere, in quelle carceri malgasce
un soggiorno all’interno delle quali non si augura neanche al proprio peggiore
nemico. La sua colpa fu quella di aver ostacolato alcuni funzionari nei loro compiti
istituzionali (la sepoltura), ma dal nostro punto di vista romantico, fu quella
di aver amato troppo la sua creatura. La coppia, inutile dirlo, si è sciolta,
incolpandosi vicendevolmente. Ora T. è in Italia, dalla sua famiglia, ma
qualcosa mi dice che ritornerà in Madagascar.
[la
foto del bambino con lo spinello non è stata fatta in Madagascar, ma da qualche
parte in Africa]
Nessun commento:
Posta un commento