giovedì 24 luglio 2014

Infanzia malgascia

  
Uscendo dal cortile di casa il 22 luglio, nel quartiere di Ambolanahomby, ci siamo imbattuti in una bambina piangente con ferite sanguinanti sul volto, accompagnata da sua sorella pure piangente. Tina si è messa a gridare dicendo che era stata morsa da un alika masiaka, un cane cattivo. Un brutto presentimento mi ha assalito. Infatti, il giorno dopo il cane è stato ucciso dal suo padrone. Negli zoo sono spesso le madri di alcune specie di mammiferi a uccidere i propri figli rendendosi conto istintivamente che, lasciati vivere, andrebbero incontro a una vita di prigionia. Nella savana, quando un maschio di leone vuole usurpare il posto di un altro maschio, nell’harem di cui sono costituiti i nuclei familiari, la prima cosa che fa dopo aver scacciato il perdente, è di uccidere i suoi figli, in modo che alla leonessa ritornino subito i calori. E’ una guerra fra geni ed è forse uno dei pochi casi in natura di assassinio intraspecifico, dopo l’uomo che sotto tale aspetto è insuperabile.


Le due storie di minori che vado a raccontarvi riguardano un paio di fratellini malgasci ripudiati dalla loro madre e un bambino meticcio, figlio di un italiano e di una ragazza del posto, che purtroppo ha trovato la morte in circostanze tragiche e che ha quasi fatto impazzire il nostro connazionale.

La madre snaturata del primo caso è una delle tante cugine di Tina, si chiama Korety e io l’ho conosciuta a Besely Nord nel dicembre scorso. Ho conosciuto anche il marito 23enne di lei, Toetra, da cui si è separata, e quando l’ho conosciuto era ubriaco fradicio, stato in cui, come mi è stato detto, si trovava quotidianamente. Lui avrebbe voluto tornare con la prima moglie, benché ormai già vivesse con la seconda, ma Korety non voleva più saperne di riprenderselo. Questi antefatti vanno conosciuti per inquadrare la situazione, senza però arrivare a giustificare il comportamento della madre. Toetra, nei giorni in cui mi trovavo a Besely Nord, mentre era in stato di ebbrezza colpì con una lancia, un lefo, la porta della capanna di Korety, minacciando di uccidere lei e i suoi genitori, facendo quella che noi chiamiamo una “piazzata”, finché un adulto della sua famiglia non l’ha trascinato via a forza. Dei due fratellini, il più grande di 5 anni, di nome Odilon, se l’è cavata abbastanza bene, ma quello di 2, Sammy, cominciava ad avere occhi e guance infossati e a diventare simile a un piccolo scheletro. La madre, semplicemente, lo aveva abbandonato a se stesso.

Per fortuna, sono intervenuti i familiari che li hanno portati entrambi a Tulear, nel quartiere di Analatsimavo, consegnandoli alla madre di lei. Tuttavia, quando sono venuti in visita insieme a una zia di Tina, mentre erano in corso le operazioni di pulizia della nostra attuale residenza, la loro accompagnatrice non si è fatta scrupolo di dare a Odilon un bicchiere di birra, dicendo che tanto è abituato. Il piccolo ne ha dato un sorso anche al fratellino di 2 anni. Ho fatto notare la cosa, disdicevole dal nostro punto di vista di occidentali, ma sia Tina che sua zia di nome Noro, fra l’altro sposata a un tedesco, hanno trovato che le mie proteste fossero eccessive e si sono messe a ridere della mia ingenuità. Anch’io forse, come Francesco, dovrei smettere di giudicare. Il piccolo si è ripreso, grazie alle cure della nonna, ma nel caso di Odilon, che ha avuto in dono un pallone portato dall’Italia, si deve dire: “Tale il padre, tale il figlio”, ma lo si deve dire amaramente.

Il secondo caso è molto triste e del nostro connazionale residente a Tulear dirò solo l’iniziale del nome, anche perché il cognome non l’ho mai saputo. T. l’anno scorso divenne padre felice. La sua compagna malgascia gli diede un bel maschietto e per lui, giovane rampollo di una famiglia bene di Cremona, era il primo figlio. Com’è successo tante volte anche a me in relazione a Tina, a causa della nostra mentalità molto differente da quella degli indigeni, T. litigò con la sua compagna una volta di più e più aspramente, tanto che ella se ne andò portandosi dietro la creatura. Per una negligenza tipica di madri inesperte, il piccolo fu lasciato in casa da solo in compagnia di un bambino di otto anni a fargli da sorvegliante. La classica fatale pentola d’acqua bollente fece il resto. Le ustioni non furono mortali ma richiesero l’intervento dei medici della clinica San Luca, nel quartiere di Sanfily.

Il bambino sopravvisse alle scottature, ma i medici dissero ai genitori affranti che aveva bisogno di continua idratazione, ovvero di flebo, altrimenti sarebbe morto. T. si oppose e promise che a idratare il figlio ci avrebbe pensato lui. La madre non disse nulla. Una volta portato a casa l’adorato figliolo, dopo poche ore, forse per imperizia di T. o perché così aveva deciso il destino crudele, il piccolo morì. T. andò fuori di testa. I familiari della madre, che volevano seppellire il corpicino, furono respinti in malo modo da T. il quale, avendoli trovati in casa a piangere secondo gli usi locali, ed essendo entrati senza il suo permesso, s’infuriò e trascinò per i capelli alcune ragazze fin sulla strada. I giornali e la televisione, che non perdono occasione di umiliare gli ex colonizzatori (e tutti i bianchi per loro lo sono), dissero che il vazaha era impazzito dal dolore. Il che, forse involontariamente da parte dei mass-media locali, gli rende onore perché dimostra quanto bene T. volesse a suo figlio. C’è chi disse che lo aveva messo in congelatore, altri che lo avesse messo in frigo e che lo baciasse continuamente piangendo disperato.
Fatto sta, quando alla fine un medico legale, insieme alla polizia, fece irruzione in casa, trovò il cadaverino, che già da un pezzo aveva cominciato a decomporsi, sul tavolo da cucina. T. fece un giorno di carcere, in quelle carceri malgasce un soggiorno all’interno delle quali non si augura neanche al proprio peggiore nemico. La sua colpa fu quella di aver ostacolato alcuni funzionari nei loro compiti istituzionali (la sepoltura), ma dal nostro punto di vista romantico, fu quella di aver amato troppo la sua creatura. La coppia, inutile dirlo, si è sciolta, incolpandosi vicendevolmente. Ora T. è in Italia, dalla sua famiglia, ma qualcosa mi dice che ritornerà in Madagascar.

[la foto del bambino con lo spinello non è stata fatta in Madagascar, ma da qualche parte in Africa]       

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