mercoledì 12 novembre 2014

Il Giainismo visto da un ateo

 
Fonte: Repubblica

Testo di Piergiorgio Odifreddi

Lo Stato del Gujarat sta ai confini dell'India occidentale, incastonato fra il Rajastan a nord, il Pakistan a ovest, e l'Oceano a sud. Le piogge monsoniche sommergono vaste parti depresse del suo territorio, che il sole torrido trasforma in candide e bollenti saline. L'alcol, birra compresa, è bandito ufficialmente da tutto lo Stato, che ha approvato il proibizionismo nel 1948. La dieta è rigorosamente vegetariana, ed esclude non solo carne e pesce, ma anche le uova. La gloria contemporanea dello stato è certamente il Mahatma Gandhi, che vi nacque e studiò. Al ritorno dal Sud Africa, nel 1918, egli vi fondò il suo ashram, che divenne il quartier generale della lotta non violenta contro l'impero britannico. Da qui Gandhi partì nel 1930 per la famosa marcia del sale, facendo voto di non tornarvi se non a India liberata.


In questa regione, per molti versi inospitale, è fiorita e continuaa prosperare una delle religioni più sorprendenti che l'uomo abbia mai concepito: il jainismo. E qui si trova, sulla cima di un monte deserto su cui attecchiscono soltanto i cactus, uno dei luoghi sacri più straordinari che l'uomo abbia mai costruito: il tempio di Palitana. Ad esso si arriva salendo una scala di 3.500 gradini, sotto il sole che batte a più di 40 gradi. Lungo la via si incrociano monaci e monache che salgono o scendono di corsa, un fazzoletto bianco al collo, un sari bianco legato alla vita, i capelli radi, attenti a non scontrarsi. Le regole dell'ordine li costringono infatti ad andare dovunque e sempre a piedi nudi, senza mai usare alcun mezzo di trasporto, a respirare attraverso un panno, a non cucire i propri vestiti, a strapparsi i capelli invece di tagliarseli, e a non toccare mai persone dell'altro sesso, neppure i bambini.

Sulla cima del monte si trova una vera e propria città santa. Nove complessi circondati da alte mura e torri, quasi fortezze della fede, racchiudono 850 templi immacolati, che contengono 27.000 statue. Alle principali i fedeli presentano offerte, dalle noci di cocco alla pasta di sandalo e zafferano, e di fronte ad esse compongono con chicchi di riso innumerevoli svastiche, che sono simboli di buon auspicio (il cui nome in sanscrito significa "benessere"). Le statue però non rappresentano divinità: i jain infatti non hanno dèi, e in particolare non credono in un creatore del mondo. Benché la loro religione risalga a periodi preistorici, precedenti l'invasione ariana dell'India, essi avevano infatti già capito che il creatore non è una risposta soddisfacente alla domanda: chi ha creato il mondo? E non lo è, perché genera immediatamente una nuova domanda: chi ha creato il creatore? Al problema dell'origine dell'universo i jain danno allora l'unica risposta soddisfacente da un punto di vista logico: il mondo è sempre esistito, e sempre esisterà.

Le 27.000 statue rappresentano dunque non dèi, ma i 24 tirthankara, gli illuminati che hanno saputo svincolare l'anima dalla materia, purificarla da ogni impurità, e permetterle di ascendere come una bolla trasparente al di sopra di tutti i cieli, ai confini estremi dell'universo. Le anime liberate sono tutte uguali fra loro, e tutte ugualmente indifferenti al mondo: per questo esse sono rappresentate in statue perfettamente uguali, in candido marmo, sedute in posizione yoga, o in piedi in posizione di abbandono del corpo, con l'espressione distaccata e vagamente sorridente, e gli occhi d'argento che brillano nella penombra dei templi. A identificare i personaggi sono soltanto minuscoli simboli sui basamenti: cobra, elefanti, antilopi, leoni, conchiglie, o svastiche.

I tirthankara sono quasi tutti personaggi mitologici, che la storiografia jain fa risalire sempre più indietro, via via oltre i tempi storici, geologici e cosmici. L'ultimo, Jina o Vittorioso, dal quale i jain prendono il nome, pare invece che sia esistito nel secolo VI a. C., contemporaneo a Buddha. E le vite dei due illuminati, così come le loro dottrine, rivelano sorprendenti affinità. Ci sono però anche precise differenze, principalmente dovute al fatto che, mentre la filosofia buddista è sostanzialmente psicologica e preoccupata delle intenzioni, i jain sono concretamente meccanicisti e interessati ai fatti. Inoltre, le loro teorie anticipano sorprendentemente molti aspetti della scienza moderna.

Ad esempio, essi credono che l'universo sia un gigantesco organismo vivente, costituito di materia e spirito. Che la materia non si crei e non si distrugga, ma si trasformi, e sia riducibile a un numero infinito di atomi. Che lo spirito permei ogni cosa, e sia anch'esso riducibile ad un numero infinito di monadi. Che il tempo sia ciclico, e costituito di istanti la cui durata è circa un millesimo di secondo. E che la storia sia il processo attraverso il quale lo spirito cerca di liberarsi dalla materia che lo contamina. La credenza più fondamentale dei jain è però che ogni cosa dell'universo sia animata. Essi sono dunque tenuti a rispettare profondamente non soltanto gli uomini e gli animali, ma l'intera natura, e a praticare un'etica di assoluta non violenza, estesa ad ogni essere del cosmo.

In realtà, la non violenza non può mai essere veramente assoluta: mangiare è infatti una violenza fatta al cibo, ma lasciarsi morire di fame è una violenza fatta a se stessi. Non intimiditi dal paradosso, i jain hanno comunque sviluppato un sistema di regole a loro volta paradossali, per cercare di fare il meglio possibile: respirare attraverso un panno per non ingoiare insetti; spazzare il cammino per non pestarli; bere solo di giorno, e solo acqua bollita, e non mangiare mai avanzi, per minimizzare la quantità di microbi ingerita; e così via. L'ascetismo che un tale sistema di vita impone ha poi finito col generalizzarsi, e provocare un globale rifiuto antitecnologico: dall'ago per cucire gli abiti alle forbici per tagliarsi i capelli, dai fornelli per la cucina all'aratro per il lavoro nei campi, dalle scarpe ai mezzi di trasporto.

Nel primo secolo della nostra era uno scisma staccò dai jain ortodossi una setta di radicali: i digambara, o Vestiti di Nuvole, che rifiutarono anche gli abiti. Essi prosperarono fino all'anno mille, e poi declinarono, senza però mai estinguersi completamente. Naturalmente non se ne vedono per le strade, ma nel sud dell'India, a Sravanabelagola, sulla cima di un altro monte sacro che si deve scalare a piedi nudi, si può visitare la gigantesca statua nuda, alta 17 metri, dedicata al figlio del primo tirthankara. A intervalli decennali essa è lavata con latte di cocco e di mucca, succo di canna da zucchero, polvere di riso, spezie e erbe medicinali, e olio di sandalo: un trattamento che la mantiene in perfetto stato di conservazione, nonostante la veneranda età di mille anni.

Nudi o vestiti, i jain non vivono comunque una vita facile, e sapevano già 25 secoli fa che la loro religione non era la più adatta a quei tempi: figuriamoci ai nostri. Ciò nonostante, oggi ci sono ancora circa tre milioni di jain, quasi tutti in Gujarat, e il loro pensiero rimane vivo: in particolare, nell'insegnamento del Mahatma Gandhi, che imparò da loro la non violenza e lo spirito antitecnologico, e seppe imporli agli indiani con efficacia nella loro vittoriosa battaglia contro l'imperialismo.

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