Ho trovato la porta aperta e sono entrato. L’avevo già vista da
fuori anni fa, con tanto di allievi seduti ai banchi. Di sabato sono
tutti a casa, studenti e professori, così ne ho approfittato per
dare un’occhiata all’interno. Spoglia, disadorna, con i banchi in
legno a blocchi di due posti uniti fra loro, come si usava da noi
fino agli anni Cinquanta. Il pavimento sconnesso e pieno di polvere,
le due finestre sempre aperte, le pareti ammuffite con l’intonaco
scrostato. La parola bidello, sconosciuta. Una lavagna a muro, con la
calligrafia dell’insegnante del giorno prima e – cosa assai
strana per una scuola elementare – una frase di Fredric Nietzsche.
Poi ho capito perché. A sinistra della lavagna, il tavolino
traballante del professore. Immagino gli scolari, scomodi, ingobbiti
e candidati alla scoliosi, costretti a mettere gli zainetti per
terra, a passarci sopra, scavalcandoli, inciampandovicisi.
La superficie del banco scarsa, risicata, che non ci puoi mettere
sopra nemmeno un foglio da disegno, senza nemmeno la buchetta per la
vaschetta dell’inchiostro, che faceva tanto, da noi, epoca
pre-industriale. Civiltà contadina. Le penne biro ormai hanno invaso
il mondo. La porta era aperta, mi ha spiegato la mia guida, perché
semplicemente la serratura è rotta e nessuno ha i soldi per metterne
una nuova. La frase di Nietzsche, poco consona per scolari delle
elementari era lì in bella mostra perché non si trattava di una
scuola elementare ma di un liceo. Un liceo che usa i banchi rigidi,
di quelli che avevamo noi quando l’Italia era povera, per ragazzi e
ragazze di vent’anni. Le scritte incise sul legno, quando il
professore è di spalle, testimoniano che il desiderio di lasciare
traccia del proprio passaggio è universale. Quanti amori sono
sbocciati in mezzo a quelle scomode assi?
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