lunedì 3 marzo 2014

La mucca abbandonata - parte prima

 
Tratto da "Il tirannominide"

"Non tutte le ciambelle riescono col buco!", disse Domitilla Vaccari a sua madre al termine di un violento litigio, volendo riferirsi a se stessa in qualità di figlia non sottomessa e quindi mal riuscita. La ragazza era maggiorenne, aveva un lavoro ma non era disposta a scendere a compromessi con la propria coscienza, nemmeno quando a porre condizioni era sua madre, cui era molto affezionata. Quest'ultima, in un accesso di rabbia e volendo porre termine alla disputa, agì nel modo più sbagliato con cui una madre potrebbe comportarsi: afferrò un ferro da stiro e lo scagliò addosso a sua figlia, mancando il bersaglio. La donna probabilmente era stata educata da genitori autoritari e non sopportava quindi nessuna insubordinazione da parte della giovane. Per un meccanismo psicologico di vischiosità educativa applicava sulla ragazza gli stessi comportamenti disciplinari validi nelle passate generazioni, provando quasi un senso di inconscia vendetta nei confronti dei suoi ormai defunti genitori. 

In altre parole, voleva far patire alla figlia la stessa dose di infelicità da lei provata qund'era giovinetta, alla mercé dei severi genitori. Domitilla meditava da tempo di andarsene da casa anche se tale pensiero la terrorizzava. I rapporti con sua madre erano sempre stati problematici fin da quando la fiammella dell'autocoscienza era venuta ad imporsi nei suoi comportamenti ed a forgiare il suo carattere volitivo, ma ora l'ingerenza della madre si era fatta più pesante nella vita privata e nelle scelte etiche della venticinquenne Domitilla. Da alcuni mesi infatti la ragazza aveva preso a frequentare un gruppo gnostico trovandovi quello che si chiama comunemente uno scopo nella vita. Ampliare i propri orizzonti conoscitivi, sentirsi partecipe della grande anima del mondo, trovare convincenti risposte a domande che per la verità non si sarebbe mai sognata di porsi, permetteva alla Vaccari di immergersi in una oceanica pace interiore. 

La setta, come veniva definito il gruppo dall'ignara e sprezzante madre di Domitilla, non era facilmente catalogabile in quanto accoglieva in sé, armonizzandole, svariate scuole di pensiero; spaziava, saccheggiandone princìpi e teoremi, dalle religioni alla filosofia, dall'esoterismo alla parapsicologia. Quel manipolo di impiegati, liberi professionisti, operai e insegnanti poteva definirsi una specie di cenacolo di persone stravaganti ed insoddisfatte ma per la ragazza, nel particolare periodo che stava vivendo, essi rappresentavano l'ambiente culturale adatto, se non addirittura indispensabile, in cui trovare e conoscere se stessa. Forse costituivano inconsciamente il trampolino di lancio per fare il grande salto nella vita, oppure erano soltanto un terreno fertile per far germogliare la propria creatività intellettuale.

Nel coacervo dei ragionamenti e delle argomentazioni che scaturivano tumultuosamente nel corso delle riunioni erano venute evidenziandosi alcune linee di pensiero che costituivano la spina dorsale, la caratteristica peculiare e in fondo il collante che teneva unite quelle persone di varia estrazione. Il pensiero-guida del gruppo era la parentela con il mondo animale, una specie di animismo zoomorfo. Nelle sedute spiritiche per esempio si invocavano spesso e volentieri le anime degli animali defunti. La proposta che ciscun membro del gruppo abbandonasse il proprio nome per adottare quello di una specie animale era stata accettata con entusiasmo, cosicché c'era fratel gabbiano, al secolo Fausto Marietti impiegato di banca, che aveva deciso di nutrirsi con una dieta a base di pesce; c'era sorella faina, ufficialmente Gina Tempera, di professione sarta, che assumeva ormai regolarmente un modo di camminare furtivo; per non parlare di fratello cane, in realtà Giacomo olivieri, dentista, che gioì masochisticamente il giorno in cui la prima pulce si stabilì sul suo cuoio capelluto. 

Altre due regole, che il gruppo si era posto, consistevano nello sforzarsi di entrare nella psicologia dell'animale prescelto (questo rispondeva, magari in modo esagerato, all'antico desiderio dell'uomo di capire gli altri animali) e di non separarsi mai dal proprio animaletto, vivo o imbalsamato che fosse. Era tuttavia consentito recarsi al lavoro senza il proprio alter ego bestiale, così come non si pretendeva l'adempimento della seconda regola da parte di chi aveva scelto animali di grossa mole. Tale deroga era stata richiesta da Milena Alfonso, cassiera di supermercato, dall'adipe pronunciata, che aveva adottato come animale totemico la balena franca.
Col passare del tempo, gli sforzi di immedesimazione da parte dei confratelli nella specie da essi singolarmente prescelta si resero ben presto manifesti. L'idea sublime, il principio unificante che trascendeva il carattere individuale e che aveva ipnotizzato quel gruppo di persone era l'amore armonioso fra le specie: se non era possibile realizzare letteralmente la visione profetizzata dal capitolo sessantacinque di Isaia se ne poteva almeno concretizzare un suo surrogato, cioè simulare senza ipocrisia e finzione rapporti pacifici fra varie specie interpretate da uomini e donne che, se ripudiavano il proprio status di umani, non però rinunciavano alla propria umanità. Tutti i membri del gruppo si consideravano rinnegati della razza umana, ma solo per quella parte di ferinità, di bestialità sanguinaria che faceva dell'uomo l'animale più feroce. Paradossalmente, essi avevano scelto di santificare la parentela tra l'uomo e gli altri animali vedendo in questi ultimi l'emblema del candore e della purezza nonché il simbolo del paradiso perduto.
                                                                                                                                                                 
Vi era nei sentimenti di quelle strane persone un misto di ammirazione per il miracolo della vita, di nostalgia per l'originaria innocenza dell'umanità, oltre a un certo innocuo paganesimo druidico. La loro volontà di immedesimazione si spingeva quindi solo fino al punto di mettere in pratica comportamenti che non danneggiassero nessuno dei presenti, che non guastassero i buoni rapporti tra i confratelli. Veniva perciò tollerata una certa idiosincrasia tra fratel gatto e fratel topo il quale, alle riunioni, andava a sedersi lontano dal primo, che a sua volta si teneva alla larga da fratel cane, ma nessuna aggressione veniva fatta nei confronti di chicchessia. Se ciò fosse avvenuto i contravventori avrebbero potuto essere espulsi dalla confraternita per la gravità della loro manchevolezza.

Domitilla, posta di fronte alla necessità di adottare un animae totemico s'impegnò in una ricerca introspettiva, richiamando alla memoria episodi della sua vita passata in cui era entrata in contatto con animali. Ella aveva avuto un'infanzia contadina per cui non le era difficile fare una scelta. Ci pensò sopra diversi giorni andandosi a rileggere un diario di quand'era adolescente in cui annotava minuziosamente i suoi sogni. Alla fine si accorse che l'animale verso cui si sentiva maggiormente attratta, che era entrato con più frequenza nei suoi viaggi onirici, nonché nelle sue fantasie infantili, era la mucca. indubbiamente si trattava di una bestia straordinaria, venerata da milioni di induisti, di fondamentale importanza nell'alimetazione di tutta l'umanità, una delle prime specie ad essere stata addomesticata dall'homo sapiens, dignitosamente presente in tutte le culture del passato e decantata dai poeti come simbolo della possente, placida ed imperitura fecondità della terra.

Come prima cosa Domitilla Vaccari diventò vegetariana, eliminando latte e latticini poiché riteneva che la bianca secrezione ghiandolare fosse riservata ai vitelli e lei non voleva nuocere in alcun modo alla sua venerata divinità.
La ragazza si rendeva conto, vivendo nello spietato Occidente, che l'oggetto del suo amore era purtroppo un ospite assiduo degli infernali mattatoi e ciò la metteva spesso in uno stato di disperazione. Anche gli altri suoi confratelli avevano lo stesso problema poiché nessuno dei loro idoli animali sfuggiva alla mannaia della prepotenza umana. Domitilla, a differenza di sorella balena franca, accarezzava il desiderio di vivere con una vera mucca, perciò si era fatta la convinzione che quando avrebbe lasciato la famiglia sarebbe andata ad abitare in una casa di campagna con annessa stalla. Non avrebbe potuto portare con sé alle riunioni il suo vivente totem ma avrebbe passato in sua compagnia molte ore della giornata. Ciò costituiva, al momento, la sua primaria aspirazione ed aveva già cominciato ad informarsi presso le agenzie immobiliari sulla disponibilità e sui prezzi delle cascine.

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