lunedì 3 novembre 2014

Perché nascono le religioni



Fonte: Repubblica

Testo di Piergiorgio Odifreddi

La montagna, quale luogo di avvicinamento al cielo, è per sua natura un potente simbolo di innalzamento spirituale, e le religioni di ogni tempo e luogo se ne sono appropriate, santificando le vette che avevano a disposizione: il Sinai ebraico, l'Olimpo greco, il Golgota cristiano, il Taishan taoista... Tutte queste alture non paiono però che povere colline di fronte alle cime sacre del monte Kailash o del Nanda Devi, rispettivamente dimora degli dèi induisti e oggettivizzazione di Parvati, moglie di Shiva. La montagna himalayana costituisce una condizione climatica estrema, opposta a quelle del deserto mediorientale e della giungla tropicale. Ai piedi dei suoi ghiacci è sbocciato l'induismo, sono fioriti i poemi sacri dei Veda e delle Upanishad, ed è ambientata l'epopea del Mahabharata. La sterminata estensione di quest'ultimo poema, lungo tre volte la Bibbia, e sette volte l'Iliade e l'Odissea messe insieme, testimonia la caratteristica più evidente dell'ambiente himalayano, che è l'esagerazione: delle cime a cui si erge, dei fiumi che partorisce, dei ghiacciai che custodisce. E anche delle amplificazioni della percezione, della coscienza e del pensiero che provoca. 


Dal punto di vista spirituale, questa esagerazione si concretizza nel modello di vita meditativo dei rishi, che si ispirano al motto "ognuno ha ciò che si medita", e trovano nelle grotte dell'Himalaya l'ambiente consono ai loro esperimenti di ascesi globale e distacco totale. I sette rishi storici, associati alle stelle dell'Orsa Maggiore e alle sette parti dei Veda, stabilirono lo standard di una vita completamente dedita alla contemplazione, e formalizzarono la visione di una coincidenza assoluta e completa fra la mente individuale e quella universale, così come la prevalenza del dato psichico e soggettivo su quello materiale e oggettivo. E il loro esempio ha ispirato in India innumerevoli varianti: dai sadhu agli yogin, dai mahatma ai sannyasin.

Tutte queste esagerazioni non sono che un riflesso umano dell'epico scontro geologico che combattono fra loro le placche continentali indoaustraliana ed euroasiatica. Spingendosi l'una contro l'altra, come il toro di Shiva contro uno yak tibetano, esse provocano una gigantesca "piega" del terreno, che sopraeleva il Tetto del Mondo di circa un centimetro all'anno. Anche se poi l'erosione disfa sistematicamente questa immensa tela di Penelope, riducendone l'innalzamento effettivo a pochi centimetri al secolo.

Come comprese per primo il geologo Charles Lyell, nei suoi Principi di geologia del 1830, in grandi tempi questi piccoli cambiamenti sono però in grado di produrre grandi effetti. Anzi, enormi, visto che l'Himalaya si innalza in quattordici punti sopra gli ottomila metri, e si estende per duemilacinquecento chilometri, come una Grande Muraglia naturale che separa l'India e il Nepal dal Tibet e dalla Cina, e più in generale il subcontinente indiano da quello asiatico.

Sorprendentemente, ai piedi dell'Himalaya è nata anche una religione come il buddismo, completamente diversa dall'induismo. O meglio, ai confini tra India e Nepal c' è un piccolo e derelitto villaggio chiamato Lumbini, che viene considerato una specie di Betlemme buddista. Cioè, la tradizione lo ritiene il luogo di nascita di Buddha, con le annesse mitologie di concepimenti e nascite soprannaturali. Sembra infatti che sua madre Maya fosse stata ingravidata in maniera miracolosa e asessuata da un elefante bianco, e che avesse dato alla luce il prodigioso figlio senza dolore e da un fianco, inaugurando così l'abitudine di rimanere vergine "prima, durante e dopo il parto".

Le similitudini tra il Buddha e il Cristo non si fermano naturalmente qui. Di entrambi si isolano come cruciali almeno tre fasi della vita: il rito di passaggio (l'illuminazione a Bodhgaya, e il battesimo nel Giordano), il discorso di fondazione (nel parco delle gazzelle a Sarnath, e su una montagna o una pianura, a seconda dei Vangeli) e la morte (a 80 anni a Kusinagara, e a 33 a Gerusalemme). Di entrambi gli estranei alle rispettive religioni, così come la ricerca storico-critica, mettono in dubbio non solo l'esistenza fattuale, ma soprattutto l'agiografia mitologica. Per non parlare del loro previsto e promesso ritorno futuro: come Buddha Maitreya in un caso, e come Giudice Universale nell'altro. Il buddismo presenta però almeno due vantaggi, nei confronti del cristianesimo. Anzitutto, il suo approccio fisiopsicologico, sostanzialmente scientifico, alla religione come cura dei disagi mentali derivanti dall'attaccamento alle cose e alle persone, e dal desiderio di esse. E il suo atteggiamento antimetafisico, sostanzialmente decostruzionista, nei confronti delle problematiche teologiche da un lato, ed esistenziali dall'altro. 

Naturalmente, sia l'induismo che il buddhismo risentono dei legami tra clima e religione. E oltre che dalle origini himalayane che le hanno forgiate, entrambe le due grandi religioni indiane sono state stemperate dalla giungla tropicale dove si sono impiantate e hanno attecchito. Ai tropici infatti i bisogni della vita sono soddisfatti ancora prima di essere formulati: le stagioni si avvicendano violentemente, e la vegetazione esplode in un ciclo continuo. In tali condizioni, in cui nessun intervento diretto sulla natura è richiesto, perché essa dispensa i suoi doni autonomamente, senza che l'uomo debba piegarla alle proprie esigenze attraverso un'azione cosciente, l'idea di un creatore non solo non è necessaria, ma è fuori luogo.

Semmai può nascere in generazione spontanea, rigoglioso al pari della vegetazione stessa, un pantheon popolato di migliaia di dèi, come nell'induismo dell'India del Sud. O, ancora più coerentemente, il concetto di divinità può non trovare terreno fertile per la propria crescita, e l'uomo può dedicarsi al miglioramento del proprio spirito in maniera puramente atea, come nel buddismo hinayana dello Sri Lanka, della Birmania e della Thailandia. La natura ai tropici è inoltre sufficientemente generosa da permettere e stimolare diete vegetariane, oltre al concomitaneo sviluppo di una dottrina globale della non violenza e del pacifismo, che sono storicamente divenute parti integranti dell'induismo e del buddismo, e continuano ad esserlo negli insegnamenti di Gandhi e del Dalai Lama.

Infine, il rigoglioso e automatico processo vegetativo della giungla genera l'immagine di un mondo di forme in continuo divenire, e non permette la formazione né di un concetto statico di essere, né dell'oggettività delle apparenze. La natura si presenta priva di ogni permanenza e genera l'impressione di una fragile istantaneità del presente, che si concretizza nella dottrina del maya induista e del samsara buddista, secondo cui il mondo delle apparenze quotidiane non è che illusione. E la percezione della vita come un flusso di trasformazioni, perenne e inarrestabile, porta automaticamente all'idea di reincarnazione. L'uomo dei tropici già vive in un "paradiso", e la reincarnazione lo condanna a rimanerci: l'unica sua speranza di liberazione può dunque essere l'uscita dal gioco, quel nirvana che non è appunto altro che lo svincolamento dal ciclo delle nascite e delle morti. E che è l'esatto contrario della speranza di resurrezione che i popoli che vivono in quella specie di "inferno" che è il deserto mediorientale hanno trasmesso a noi, che pure abbiamo la fortuna di vivere in un "purgatorio" temperato del pianeta.

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