Fonte: Repubblica
Testo di Piergiorgio Odifreddi
La
montagna, quale luogo di avvicinamento al cielo, è per sua natura un potente
simbolo di innalzamento spirituale, e le religioni di ogni tempo e luogo se ne
sono appropriate, santificando le vette che avevano a disposizione: il Sinai
ebraico, l'Olimpo greco, il Golgota cristiano, il Taishan taoista... Tutte
queste alture non paiono però che povere colline di fronte alle cime sacre del
monte Kailash o del Nanda Devi, rispettivamente dimora degli dèi induisti e
oggettivizzazione di Parvati, moglie di Shiva. La montagna himalayana costituisce una
condizione climatica estrema, opposta a quelle del deserto mediorientale e
della giungla tropicale. Ai piedi dei suoi ghiacci è sbocciato l'induismo, sono
fioriti i poemi sacri dei Veda e delle Upanishad, ed è ambientata l'epopea del
Mahabharata. La sterminata estensione di quest'ultimo poema, lungo tre volte la
Bibbia, e sette volte l'Iliade e l'Odissea messe insieme, testimonia la
caratteristica più evidente dell'ambiente himalayano, che è l'esagerazione:
delle cime a cui si erge, dei fiumi che partorisce, dei ghiacciai che
custodisce. E anche delle amplificazioni della percezione, della coscienza e
del pensiero che provoca.
Dal punto di vista spirituale, questa
esagerazione si concretizza nel modello di vita meditativo dei rishi, che si
ispirano al motto "ognuno ha ciò che si medita", e trovano nelle
grotte dell'Himalaya l'ambiente consono ai loro esperimenti di ascesi globale e
distacco totale. I sette rishi storici, associati alle stelle dell'Orsa
Maggiore e alle sette parti dei Veda, stabilirono lo standard di una vita
completamente dedita alla contemplazione, e formalizzarono la visione di una
coincidenza assoluta e completa fra la mente individuale e quella universale,
così come la prevalenza del dato psichico e soggettivo su quello materiale e
oggettivo. E il loro esempio ha ispirato in India innumerevoli varianti: dai sadhu
agli yogin, dai mahatma ai sannyasin.
Tutte queste esagerazioni non sono che un
riflesso umano dell'epico scontro geologico che combattono fra loro le placche
continentali indoaustraliana ed euroasiatica. Spingendosi l'una contro l'altra,
come il toro di Shiva contro uno yak tibetano, esse provocano una gigantesca
"piega" del terreno, che sopraeleva il Tetto del Mondo di circa un
centimetro all'anno. Anche se poi l'erosione disfa sistematicamente questa
immensa tela di Penelope, riducendone l'innalzamento effettivo a pochi
centimetri al secolo.
Come comprese per primo il geologo Charles
Lyell, nei suoi Principi di geologia del 1830, in grandi tempi questi piccoli
cambiamenti sono però in grado di produrre grandi effetti. Anzi, enormi, visto
che l'Himalaya si innalza in quattordici punti sopra gli ottomila metri, e si
estende per duemilacinquecento chilometri, come una Grande Muraglia naturale
che separa l'India e il Nepal dal Tibet e dalla Cina, e più in generale il
subcontinente indiano da quello asiatico.
Sorprendentemente, ai piedi dell'Himalaya è
nata anche una religione come il buddismo, completamente diversa dall'induismo.
O meglio, ai confini tra India e Nepal c' è un piccolo e derelitto villaggio
chiamato Lumbini, che viene considerato una specie di Betlemme buddista. Cioè,
la tradizione lo ritiene il luogo di nascita di Buddha, con le annesse
mitologie di concepimenti e nascite soprannaturali. Sembra infatti che sua madre Maya fosse stata
ingravidata in maniera miracolosa e asessuata da un elefante bianco, e che
avesse dato alla luce il prodigioso figlio senza dolore e da un fianco,
inaugurando così l'abitudine di rimanere vergine "prima, durante e dopo il
parto".
Le similitudini tra il Buddha e il Cristo non
si fermano naturalmente qui. Di entrambi si isolano come cruciali almeno tre
fasi della vita: il rito di passaggio (l'illuminazione a Bodhgaya, e il
battesimo nel Giordano), il discorso di fondazione (nel parco delle gazzelle a
Sarnath, e su una montagna o una pianura, a seconda dei Vangeli) e la morte (a
80 anni a Kusinagara, e a 33 a Gerusalemme). Di entrambi gli estranei alle rispettive
religioni, così come la ricerca storico-critica, mettono in dubbio non solo
l'esistenza fattuale, ma soprattutto l'agiografia mitologica. Per non parlare
del loro previsto e promesso ritorno futuro: come Buddha Maitreya in un caso, e
come Giudice Universale nell'altro. Il buddismo presenta però almeno due vantaggi,
nei confronti del cristianesimo. Anzitutto, il suo approccio fisiopsicologico,
sostanzialmente scientifico, alla religione come cura dei disagi mentali
derivanti dall'attaccamento alle cose e alle persone, e dal desiderio di esse.
E il suo atteggiamento antimetafisico, sostanzialmente decostruzionista, nei
confronti delle problematiche teologiche da un lato, ed esistenziali
dall'altro.
Naturalmente, sia l'induismo che il buddhismo risentono dei legami tra clima e religione. E oltre che dalle origini himalayane che le hanno forgiate, entrambe le due grandi religioni indiane sono state stemperate dalla giungla tropicale dove si sono impiantate e hanno attecchito. Ai tropici infatti i bisogni della vita sono soddisfatti ancora prima di essere formulati: le stagioni si avvicendano violentemente, e la vegetazione esplode in un ciclo continuo. In tali condizioni, in cui nessun intervento diretto sulla natura è richiesto, perché essa dispensa i suoi doni autonomamente, senza che l'uomo debba piegarla alle proprie esigenze attraverso un'azione cosciente, l'idea di un creatore non solo non è necessaria, ma è fuori luogo.
Semmai può nascere in generazione spontanea,
rigoglioso al pari della vegetazione stessa, un pantheon popolato di migliaia
di dèi, come nell'induismo dell'India del Sud. O, ancora più coerentemente, il
concetto di divinità può non trovare terreno fertile per la propria crescita, e
l'uomo può dedicarsi al miglioramento del proprio spirito in maniera puramente
atea, come nel buddismo hinayana dello Sri Lanka, della Birmania e della
Thailandia. La natura ai tropici è inoltre sufficientemente
generosa da permettere e stimolare diete vegetariane, oltre al concomitaneo
sviluppo di una dottrina globale della non violenza e del pacifismo, che sono
storicamente divenute parti integranti dell'induismo e del buddismo, e
continuano ad esserlo negli insegnamenti di Gandhi e del Dalai Lama.
Infine, il rigoglioso e automatico processo
vegetativo della giungla genera l'immagine di un mondo di forme in continuo
divenire, e non permette la formazione né di un concetto statico di essere, né
dell'oggettività delle apparenze. La natura si presenta priva di ogni
permanenza e genera l'impressione di una fragile istantaneità del presente, che
si concretizza nella dottrina del maya induista e del samsara buddista, secondo
cui il mondo delle apparenze quotidiane non è che illusione. E la percezione
della vita come un flusso di trasformazioni, perenne e inarrestabile, porta
automaticamente all'idea di reincarnazione. L'uomo dei tropici già vive in un
"paradiso", e la reincarnazione lo condanna a rimanerci: l'unica sua
speranza di liberazione può dunque essere l'uscita dal gioco, quel nirvana che
non è appunto altro che lo svincolamento dal ciclo delle nascite e delle morti.
E che è l'esatto contrario della speranza di resurrezione che i popoli che
vivono in quella specie di "inferno" che è il deserto mediorientale
hanno trasmesso a noi, che pure abbiamo la fortuna di vivere in un
"purgatorio" temperato del pianeta.
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