Fonte: Secolo Trentino
“Stupore
e sconcerto ha destato la notizia che il governo italiano nega il
visto d’ingresso in Italia ai profughi tibetani in possesso del
documento d’identità loro rilasciato dal governo indiano”, ad
affermarlo l’associazione Italia-Tibet in
una nota stampa. Il
documento (Identity Certificate), riconosciuto come valido da tutti i
paesi dell’area Schengen ad eccezione della Svezia e del
Portogallo, fino a poche settimane fa veniva accettato senza problemi
dal nostro paese per il rilascio dei visti ai rifugiati tibetani. La
Farnesina ha confermato che il documento non è riconosciuto
dall’Italia. Con
la Comunità Tibetana in Italia, le associazioni a sostegno del
popolo tibetano e della sua cultura, i Centri di Buddhismo e i gruppi
a difesa dei diritti umani, l’Associazione Italia-Tibet intende
attivarsi per conoscere le ragioni di tale decisione e chiedere la
revoca del provvedimento. Un cambio di
atteggiamento dovuto probabilmente a esigenze economiche con la
Cina. L’Italia
è stata per decenni uno dei paesi più coraggiosi a rifiutare ogni
imposizione o diktak e il Dalai Lama è venuto spesso nel nostro
Paese a parlare di spiritualità, pace, tolleranza, o a concedere
insegnamenti a gruppi sempre più numerosi di persone interessate
alla filosofia tibetana, senza contare i premi e riconoscimenti
ricevuti da università e amministrazioni pubbliche, basti pensare al
suo stretto rapporto con il Trentino.
Raimondo Bultrini, editorialista
di Repubblica.it, ha affermato in data 12 luglio: “Una
svolta diplomatica di avvicinamento alla Cina. Difficili
se non impossibili saranno le possibilità di invitare anche gli
insegnanti spirituali (compresi gli assistenti del Dalai Lama e di
altre figure importanti delle varie scuole buddhiste) da parte di
organizzazioni come l’Unione buddhista – riconosciuta formalmente
ma trattata come religione di secondo piano – o dalla stessa
associazione Italia Tibet che ha scambiato una corrispondenza con le
autorità consolari di Mumbai e con la Farnesina per capire se
davvero le restrizioni erano ufficiali (lo sono) e irrevocabili (lo
sembrano). Che la svolta diplomatica sia stata determinata da una
politica di “avvicinamento” italiano alla Cina non sorprende, ma
non per questo è meno indignante per chi crede che i valori umani
siano importanti almeno quanto gli affari. Per fortuna nel resto
della vecchia Europa non la pensano tutti come Roma, a meno che
la decisione italiana non sia il segnale di una tendenza a catena.
Nel suo piccolo, il caso tibetano segnerebbe un’altra tappa verso
la fine dell’evoluzione di una civiltà come la nostra che ha
sofferto molto per creare un mondo di uomini liberi”.
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