Fonte: Formiche
Anna Bono (Università di Torino, Storia e
istituzioni dell’Africa) si è assunta da anni – in pressoché
totale solitudine accademica – un compito tanto arduo quanto
meritorio. È noto come, per chi sia posseduto dall’ideologia,
quando c’è divaricazione tra gli schemini astratti e la realtà,
sia fortissima la tentazione di “cambiare la realtà”: ecco,
saggiamente, la professoressa Bono fa il contrario, e cioè rispetta
la realtà e smonta le impalcature ideologiche altrui. Lo fa su un tema incandescente, quello dell’immigrazione. E lo
fa – il che è ancora più meritorio – in modo non urlato, non
aggressivo, non disumano: se è consentito a un laico come me
metterla così, lo fa con autentica carità cristiana, con pietas, ma
senza pietismo. In questo libro, che riassume anni di ricerca, Anna Bono smonta in
particolare due fake-news, due autentiche
falsificazioni, che hanno invece segnato il dibattito politico su
questo tema.
Prima fake-news: “Quelli che arrivano sono
profughi, scappano dalla guerra, la loro è una migrazione forzata”.
Non è vero, spiega Anna Bono! Dati alla mano, esaminati anno per
anno, viene fuori (qui sintetizzo, ma nel volume ci sono tutti i
dettagli) che, grosso modo, su 100 migranti che
arrivano in Italia, solo 4 si vedranno riconoscere lo status di
profugo o rifugiato di guerra. Gli altri 96 sono sostanzialmente
migranti economici.
Seconda fake-news: “Quelli che arrivano sono i più
poveri fra i poveri”. Non è vero nemmeno questo! Certo, non sono
persone benestanti: non occorre un genio per capirlo. Ma sono
comunque persone provenienti da paesi stabili (spesso democrazie
imperfette, fragili, giovani, ma pur sempre democrazie), e persone
che sono state in grado di raccogliere i non pochi soldi (da 5 a 10
mila dollari) necessari a pagare le organizzazioni criminali che
lucrano su questo traffico di esseri umani. Già questa operazione di demistificazione merita ogni
gratitudine: la professoressa Bono dimostra che oggi l’atto più
“rivoluzionario” è studiare i fenomeni senza pregiudizi,
esaminare numeri e dati, anziché “fabbricare narrazioni”.
Ma nel libro c’è di più, c’è un’altra serie di scomode
verità. Sintetizzo per comodità: si possono accogliere gli
individui, ma non delle comunità; il multiculturalismo ha fallito; è
perniciosa l’idea di “appaltare” pezzi di territorio a una
specie di “legalità alternativa” basata sulla sharia;
negare che l’Islam sia un problema è una tragica illusione. E soprattutto, chiarito questo (ciò che troppi cattocomunisti
vogliono negare: chiamiamo le cose col loro nome), e stabilito che le
effettive possibilità di accoglienza sono legate a numeri piccoli,
piccolissimi, drasticamente contenuti, resta l’altro tema decisivo:
quei pochi che si possono realmente accogliere vanno messi a
lavorare, prima che siano assorbiti dall’esercito della
criminalità.
Per far questo, a mio personale avviso, resta valido lo strumento
adottato da anni in Canada: stabilire non solo quantità piccole, ma
anche le qualità e le caratteristiche lavorative (quante badanti,
quanti lavoratori per l’agricoltura, ecc.) di quelli che potranno
essere accolti anno per anno, legando cioè i meccanismi di entrata
all’effettiva assorbibilità dei nuovi ingressi da parte del
mercato del lavoro nazionale. Se si fa questo, può esserci un effetto positivo per tutti. In
mancanza – come accade da noi – resta solo la prospettiva del
caos, della violenza e dell’invasione.
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